martedì, 26 Novembre 2024
Bombardamenti tra Armenia ed Azerbaijan. Putin, bloccato in Ucraina, non interviene
Ci mancava anche questa per Vladimir Putin. Mentre Mosca batte in ritirata nella regione di Kharkiv, in seguito all’incendiaria controffensiva di Kiev nell’Ucraina orientale, in un altro territorio ex sovietico si riaccende un conflitto, anch’esso ereditato dalla disgregazione dell’Urss: quello tra Armenia e Azerbaijan per il controllo della regione contesa del Nagorno-Karabakh, il più lungo della storia post sovietica.
Ufficialmente, il conflitto è monitorato dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), sotto la sorveglianza diretta di Russia, Stati Uniti e Francia. Lo chiamano «gruppo di Minsk», anche se questo gruppo di lavoro non ha mai messo mai piede nella capitale bielorussa. Il Cremlino, però, ha dispiegato migliaia di soldati nel recente passato in quest’area. E chi atterra nella regione sa che a controllare i passaporti ai valichi di frontiera e negli aeroporti c’è sempre qualche ufficiale dell’armata russa.
Mosca qui è dappertutto: nei monumenti sovietici, nel bilinguismo dei locali, nei ricordi della gente. E nella politica. Si potrebbe anzi affermare che le ostilità tra i cristiani dell’Armenia e i musulmani dell’Azerbaijan abbiano rispecchiato sinora la guerra per procura che era (e in parte lo è ancora) in corso tra Russia e Turchia nell’intera regione e, per estensione, anche in Siria.
La guerra a singhiozzo nel Nagorno-Karabakh dura dal 1994, quando il conflitto esploso all’indomani della fine dell’Unione Sovietica venne formalmente congelato dopo la vittoria armena, che strappò la regione del Nagorno agli azeri e consegnò alla popolazione armena un territorio che si era reso indipendente già nel 1991 con il nome di Artsakh, ma che ancora oggi non è pacificato né tantomeno riconosciuto da alcun Paese al mondo.
La contesa è geopolitica, etnica e religiosa allo stesso tempo. Per cancellare le rivalità etnico-religiose, l’Unione Sovietica (di cui Armenia e Azerbaijan erano parte) aveva deciso di mescolare questi popoli e, all’insegna del divide et impera staliniano, volle assorbirli nel grande sogno socialista.
Ma con la caduta dell’Urss, la popolazione armena del Nagorno-Karabakh rimase devota alla Chiesa apostolica armena, tra le più antiche della cristianità. Diversamente, gli azeri sono rimasti in prevalenza musulmani sciiti. E non hanno mai accettato l’esistenza dell’enclave del Nagorno-Karabakh, perché la considerano una minaccia alla propria integrità territoriale. Così sono arrivate Mosca e Ankara, nell’ottica di mantenere ed espandere la rispettiva influenza in Armenia e in Azerbaijan. Militare così come commerciale.
Ultimamente, però, gli insuccessi nella guerra in Ucraina hanno costretto il Cremlino a riposizionare le truppe d’interposizione di stanza in Armenia, per spedirle sul fronte ucraino. E così la situazione è presto degenerata: gli ultimi scambi di artiglieria si sono verificati la notte scorsa, in tandem con squadriglie di droni azeri che si sono alzati in volo per bombardare diverse città armene, vicino al confine comune.
La questione dei cieli qui è particolarmente importante: per difendere questi territori montuosi dalle incursioni degli elicotteri e oggi anche dei droni azeri (velivoli di ultima generazione, appena acquistati da Israele e in grado anche di bombardare), l’esercito di Artsakh ha steso una rete di fili d’acciaio quasi invisibili tra un monte e l’altro, per evitare che il nemico sorvoli l’area. Ma gli azeri hanno imparato la lezione, e oggi bombardano a quote più elevate, prediligendo inoltre i colpi d’artiglieria sui villaggi, per fiaccare la resistenza della popolazione.
La decisione azera di attaccare a settembre, prima cioè che arrivi l’inverno a impedire le manovre militari (che a queste latitudini è particolarmente rigido), ricalca quella presa nello stesso identico periodo di due anni fa. Quando cioè, nell’autunno del 2020, si erano svolti scontri durissimi lungo il confine nordorientale che Stepanakert – autoproclamatasi capitale del Nagorno-Karabakh, ma di fatto territorio armeno – aveva rivendicato come proprio nel 1992, suscitando l’ira di Baku. Risultato? Oltre 6 mila morti.
A novembre di quello stesso anno, dopo sei settimane di pesanti scontri e centinaia di morti, l’Azerbaijan era riuscito a strappare all’Armenia pesanti concessioni territoriali grazie al supporto della Turchia, e a concordare una tregua con Yerevan, grazie invece alla mediazione di Mosca, che aveva negoziato un corridoio per collegare l’enclave del Nagorno alla «madrepatria» Armenia.
Ma ecco che ci risiamo. «Il 13 settembre 2022 alle 00:05, unità delle forze armate azere hanno aperto il fuoco intensivo con artiglieria e armi di grosso calibro contro le posizioni armene in direzione delle città di Goris, Sotk e Dzhermuk», recita il comunicato ufficiale di Baku, la capitale azera. Mentre il premier armeno Nikol Pashinyan, che dalla capitale armena Yerevan monitora l’andamento delle ostilità, ha già divulgato le prime cifre degli scontri: 49 soldati armeni deceduti.
Baku sembra intenzionata a mettere la parola «fine» alla contesa per il territorio nel sud del Caucaso una volta per tutte. Per questo, il premier armeno Pashinyan ha chiesto aiuto direttamente al presidente Vladimir Putin, ben sapendo che la Turchia, che neanche riconosce il genocidio armeno, potrebbe dare man forte a Baku. In una telefonata accorata, il primo ministro ha chiesto «una risposta adeguata da parte della comunità internazionale» in virtù del Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza tra i due Paesi.
Ma al Cremlino il telefono è muto. Segno che la situazione per Mosca è già abbastanza difficile in Ucraina, perché si possa concedere il lusso di poter ulteriori truppe in un altro quadrante dei suoi immensi ma irrequieti confini. Così come sembra caduto nel vuoto l’appello rivolto all’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Otsc), l’alleanza militare creata nel 1992 e di cui fanno parte Armenia, Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.
Il paradosso è che le stesse forze che avrebbero dovuto unirsi alla Russia per supportare l’invasione del 24 febbraio e sconfiggere l’Ucraina, adesso iniziano a loro volta a chiedere aiuti militari. Una doppia sconfitta per la politica egemonica di Mosca, che sognava l’espansione della Grande Russia in ogni direttrice, e che invece è costretta a osservare come la sua influenza e il suo ruolo vadano assottigliandosi giorno dopo giorno. Il che non solo conferma come il Caucaso sia un luogo sempre più ingovernabile, ma quando residue e in difficoltà siano le risorse militari della Russia.