mercoledì, 27 Novembre 2024
Budapest un modello di tolleranza? Ai tempi dell’invasione russa tutto è possibile
Zsolt Semjén, vicepremier ungherese, ne è sicuro. Il suo è uno dei Paesi più tolleranti dell’Unione Europea. Un apparente paradosso per una «democrazia illiberale», come lo stesso premier ungherese Viktor Orban ha definito il suo progetto politico e come viene ormai additata la «sua» Ungheria. E tuttavia quest’affermazione si spiega con alcune considerazioni. «Nel mio partito ci concentriamo con una piattaforma sulla protezione dei valori biblici, e delle civiltà cristiana ed ebraica» spiega il braccio destro del leader ai microfoni di Panorama. «Gli ebrei sono da noi supportati tanto quanto i cattolici, non c’è nessun doppio stantard. Non ci piace come fanno altri Paesi europei, che lodano Israele e poi finanziano le ong anti-israeliane. L’Ungheria ha tolleranza zero vero l’antisemitismo. Semmai è l’Islam politico ad alimentare tensioni, ma nel nostro Paese tutto questo non c’è e non permetteremo che vi sia».
L’occasione per rilasciare queste dichiarazioni è la policy conference dell’European Jewish Association (Eja), appuntamento annuale che riunisce nella capitale ungherese le organizzazioni ebraiche continentali e la stampa internazionale. «Qui stiamo vivendo un rinascimento ebraico» afferma senza indugi Semjén, anticipando le statistiche snocciolate durante la conferenza a favore dei media, dove in effetti Budapest supera nettamente Paesi storicamente espressione di grande tolleranza – o percepiti come tali – quali la Francia e l’Olanda.
Zsolt Semjén
Almeno quanto a tolleranza della comunità ebraica, l’Ungheria li supera entrambi. Ma la notizia è che anche l’Italia brilla: nella classifica dei Paesi più amichevoli e tolleranti verso le minoranze e le libertà di culto, Roma condivide il primato con Budapest. Anche se le performance dei governi tedesco, austriaco, francese e olandese – con le loro attitudini pubbliche e i fondi disponibili – indicano un impegno notevole verso il rispetto delle libertà e la lotta contro l’antisemitismo e le forme di discriminazione razziale, tuttavia questo non si traduce in una sicurezza percepita dalla popolazione. E difatti le cronache condannano Germania e Francia, ad esempio, in fondo alla classifica insieme a Polonia e Belgio nell’indice generale della qualità di vita delle minoranze (e, in special modo, della comunità ebraica) e delle politiche di contrasto al fenomeno.
La presenza di Zsolt Semjén all’appuntamento dell’Eja, dunque, è considerata a tutti gli effetti il cappello del governo Orban sulla concreta vicinanza dell’Ungheria agli ebrei e, soprattutto, uno schiaffo del governo ungherese a chi pretende di dipingere Budapest esclusivamente come un Paese marginale (quando non deleterio) rispetto ai grandi manovratori delle politiche Ue.
Infatti, nonostante il leader indiscusso dell’Ungheria sia additato comunemente un satrapo che ricatta l’Europa e che strizza l’occhio al regime di Putin (vedi la questione del gas russo nel contesto del conflitto ucraino), secondo le statistiche ufficiali il paradosso è che qui la libertà – perlomeno di culto – appare intatta.
Lo scorso anno, le accuse di violazioni dei diritti civili da parte della leadership ungherese (come la chiusura di media indipendenti, la limitazione della libertà nelle università e, soprattutto, le note politiche contro l’immigrazione e contro la comunità Lgbt+) avevano spinto alcuni leader europei a chiedere persino l’estromissione dell’Ungheria dall’Ue.
Per questo Orban e il suo partito Fidesz sono ormai considerati i veri «ribelli d’Europa», come li ha ribattezzati il giornalista Alberto Simoni, che ha appena pubblicato un saggio dal titolo omonimo sulla crisi dei quattro di Visegrad, per i tipi di Paesi Edizioni. Da Washington, dove è corrispondente per La Stampa, centra il nocciolo della questione: «C’è un posto nel cuore della Mitteleuropa che negli ultimi anni si è trovato al centro delle vicende politiche del Continente, un luogo simbolico dove la storia si intreccia oggi più che mai con l’attualità politica. Si chiama Visegrád. Da qui è partita la linea dura di Ungheria, Polonia, Rep. Ceca e Slovacchia contro Bruxelles. Temi: i migranti, il braccio di ferro sulla giustizia e lo stato di diritto».
Oggi, vista da Budapest e considerate le statistiche dell’Eja, la situazione politica dell’Unione appare completamente ribaltata: mentre ai confini europei l’Ucraina è invasa dai russi che intendono «denazificare» (qualsiasi cosa significhi) un Paese dove un presidente ebreo è stato eletto con percentuali plebiscitarie e Mosca minaccia la pace continentale. Mentre a Parigi è in corso un terremoto politico, dopo la rivincita dei populisti e della destra radicale alle elezioni per il parlamento, che imbarazza non poco il presidente Macron e alimenta nelle minoranze etniche il pericolo di recrudescenze.
Mentre Finlandia, Svezia, Belgio, Gran Bretagna e ancora la Francia hanno i tassi più alti di criminalità in Europa secondo Eurostat. Mentre in Italia il governo Draghi soffre per l’incapacità dei 5Stelle di esprimere una linea e una visione politica. E, ancora, mentre poco oltre il Mediterraneo nell’unica democrazia del Medio Oriente, ovvero lo Stato di Israele, è caduto l’ennesimo governo per incapacità di mettere d’accordo le varie anime laica e religiosa nazionali.
Mentre avviene tutto questo, l’Ungheria vive invece il suo momento d’oro: con Budapest che ha un governo stabile praticamente dal 2010 e con il suo uomo forte che pretende di ergersi nel panorama internazionale quale costruttore di certezze granitiche in seno all’Europa. Perlomeno, di una certa Europa.
Con tutto questo, vale la pena ricordarlo, è inevitabile doversi confrontare a Bruxelles, specie di fronte al fatto che l’Unione funziona spesso per veti. E siccome Orban non manca mai di far pesare il suo, mandando in confusione le regole di convivenza politica dei 27 Paesi membri, con lo sfondo della guerra ai confini d’Europa e un barometro del populismo che oscilla pericolosamente verso il progressivo sgretolamento degli istituti democratici, l’ascesa del radicalismo insieme alle recrudescenze dell’Islam politico, a partire proprio dalla Francia, rischiano di ripiombare l’Europa verso l’intolleranza, elezione dopo elezione. Un monito che, lanciato da una «democrazia illiberale», è al tempo stesso un monito e un allarme.