Celotto: «Dove arrivano i poteri di Mattarella sulla scelta di premier e ministri»

Sta per iniziare la fase di formazione del governo e, propedeutica ad essa, la nomina che il Presidente della Repubblica fa del Presidente del Consiglio e, successivamente, dei ministri. L’art. 92 della Costituzione traccia la formazione del Governo, ma la formula utilizzata, “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”, indica semplicemente l’organo incaricato di nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri, ma nulla chiarisce sulle modalità pratiche.

Lineare per la Costituzione, la formazione del Governo si è trasformata in un procedimento complesso ed articolato, che parte con la fase delle consultazioni (fase preparatoria), prosegue con quella dell’incarico, e termina con la nomina vera e propria.

Panorama.it ha chiesto lumi al costituzionalista Alfonso Celotto, soprattutto in merito ai poteri in capo al Presidente della Repubblica. E ai suoi limiti…

Professore, siamo alla vigilia del conferimento dell’incarico al Presidente del Consiglio: i poteri del Presidente della Repubblica vanno letti alla luce dell’art. 92 della Costituzione.

«La nostra Repubblica parlamentare, caratterizzata da un chiaro bilanciamento tra i poteri del Presidente del Consiglio e del Presidente della Repubblica, fa sì che il governo ne sia una formazione congiunta: da un lato, il Presidente della Repubblica individua il leader, ovvero il capo del Governo, su cui rinvenire la più ampia unitarietà nella formazione del governo; dall’altro, dopo averlo designato, avvia un serrato dialogo con “questo” capo dell’esecutivo, discutendone e nominandone i ministri insieme».

Il Capo dello Stato non gode di piena discrezionalità nella scelta del nome cui conferire l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri…

«Esatto, perché si tratta di potere, come detto, assolutamente “bilanciato”. Se analizziamo a ritroso i 18 governi che si sono formati all’alba delle diciotto legislature della nostra storia repubblicana, ci accorgiamo come il partito che ha vinto le elezioni ha sempre visto premiato il proprio leader per la carica di Presidente del Consiglio incaricato. Come dire: il partito di maggioranza relativa ha sempre conquistato in modo sostanziale la guida del Governo. Su diciotto casi, per la precisione, almeno in sedici la compagine uscita vincitrice dalle elezioni ha designato il Presidente del Consiglio “in pectore”».

Precisione per precisione: e negli altri due casi?

«Si tratta di due episodi, ovvero quando la Democrazia cristiana, pur avendo vinto le elezioni, non designò un “proprio” presidente incaricato. Accadde nel 1983, quando designato fu il socialista Bettino Craxi e nel 1992, con la designazione in favore del costituzionalista Giuliano Amato. In ogni caso, il partito di maggioranza relativa va al governo. Per completezza, nel 2018 le elezioni furono vinte dal Movimento 5Stelle che non designò a Presidente del Consiglio incaricato il proprio leader Luigi Di Maio, ma un’altra personalità -sempre di sua appartenenza- come Giuseppe Conte, successivamente divenuto presidente del Consiglio».

In questa delicata fase il ruolo del Presidente della Repubblica è tutt’altro che puramente notarile: ritorna la celebre immagine di Giuliano Amato, che paragonò i poteri presidenziali ad una fisarmonica…

«Assolutamente! Si ratta di un potere c.d. “garante” che diventa potere “attivo”. Una delle fasi in cui il presidente della Repubblica acquista un potere attivo è proprio quella della formazione del governo; l’altra si esplicita nella fase patologica, ovvero nella caduta di un esecutivo, quando a seguito di dimissioni del premier, si determina lo scioglimento delle Camere e si inaugura la fase delle c.d. “consultazioni”. Insomma, il Capo dello Stato è arbitro della Costituzione, ma anche il primo motore immobile che si attiva tanto nella formazione del Governo quanto dopo la sua caduta».

Le elezioni del 25 settembre hanno decretato l’indiscussa leadership di Giorgia Meloni. Il Presidente Mattarella non può che prenderne atto e nominarla Presidente del Consiglio…

«Le elezioni politiche hanno marcato un risultato chiaro come non avveniva dal 2008, in base al quale la leader del partito di maggioranza relativa, cioè Giorgia Meloni -che peraltro può contare sul doppio dei voti rispetto agli altri due partiti della sua coalizione (cioè Lega e Forza Italia) – appare essere la designanda naturale».

L’unico evento destinato ad interrompere la fluidità della sua designazione potrebbe frapporlo la stessa leader.

«In pratica, sì. Nel caso in cui la Meloni stessa indicasse un altro nome, del suo partito, designandolo quindi direttamente a guidare il Governo. Ma al momento tutto fa presagire che avremo la prima presidente del Consiglio donna: in ogni caso un segnale di maturazione della cultura politica nazionale».

Beh, professore, immaginiamo per un attimo che Giorgia Meloni indicasse un altro nome…

«Ah, ora vi dico pure chi vincerà lo scudetto nel 2023!».

Le cose cambiano, quanto al ruolo del Presidente della Repubblica, nella fase successiva, quando occorre procedere alla formazione del Governo. La dialettica tra Presidente della Repubblica, titolare del potere di nomina, e Presidente del Consiglio, cui compete la proposta, si manifesta apertamente.

«Si tratta della fase caratterizzata da un forte potere di interlocuzione tra i “due presidenti”. Il premier in pectore, prima della loro nomina, compila una lista di Ministri tendenzialmente gradita alla sua maggioranza che dovrà accordargli la fiducia. Al momento della nomina, questa lista viene materialmente presentata al Capo dello Stato che emette i decreti di nomina».

Professore, si tratta di un passaggio assolutamente delicato.

«Formalmente la nostra Costituzione repubblicana attribuisce il potere di nomina dei ministri al Presidente della Repubblica, per come previsto dal secondo comma dell’articolo 92 della nostra Carta costituzionale. Sostanzialmente, trattandosi la nostra di una “democrazia dei partiti” -argomentando dall’art. 49 della stessa Carta- la scelta del Presidente non appare certamente libera, ma condizionata dalle forze politiche presenti in Parlamento e risultate vincitrici dall’esito elettorale. Sono infatti i partiti ad imporre il nome del soggetto incaricato della formazione del Governo, condizionandone fortemente la scelta dei Ministri».

Quindi, per sintetizzare…

«La “scelta” non spetta né al Capo dello Stato, poiché questi non è in condizione di esercitarla in assenza di una proposta, né interamente al Capo del Governo, poiché altrimenti la Costituzione avrebbe assegnato a quest’ultimo il proprio potere di nomina. L’art. 92 della Costituzione, come già evidenziato, presuppone una collaborazione tra due organi. Dirò di più: il potere di proposta viene interpretato nel senso di affidare la scelta effettiva dei ministri al Presidente del Consiglio: in ogni caso al Presidente della Repubblica spetta un qualche margine di valutazione sulla lista».

E se il Presidente della Repubblica ponesse il veto sul nome di un Ministro indicato nella lista?

«Occorre essere chiari: il Presidente della Repubblica, ove non gradisse le partizioni dei Ministri propostegli dal Presidente del Consiglio incaricato, non potrebbe effettuare nessuna modifica delle stesse. Ma potrebbe revocare l’incarico proprio al Presidente designato ed avviare un nuovo giro di consultazioni tra le forze politiche, partendo -ovviamente- da quelle uscite vincitrici dall’agone elettorale».

Ricordiamolo qualche precedente.

«Più che altro si è trattato di indiscrezioni di palazzo. Da Clelio Darida a Cesare Previti, da Roberto Maroni a Nicola Gratteri, sono diversi i Presidenti e i Governi chiamati in causa. Simili precedenti, tuttavia, non smentiscono quanto affermato sinora, semmai ne danno puntuale conferma. Nei casi citati, il Presidente della Repubblica ha sì espresso perplessità sul nome proposto, ma esclusivamente in virtù di gravi motivi generalmente legati alla sfera personale dell’interessato e mai per ragioni puramente politiche».

Lei parlava di indiscrezioni di palazzo…

«Infatti, rimaste confinate ai colloqui quirinalizi, di cui non esiste nessuna certezza sostanziale. Se veto ci fu, è rimasto ben racchiuso in camera caritatis. In casi di questo genere, il Presidente del Consiglio avrà deciso di accogliere i rilievi del Quirinale e virare su personalità di altro rilievo, esprimendo una nuova “proposta”. In ciò, rimanendo nell’alveo dell’art. 92 della Costituzione».

L’argomento, visti gli autorevoli precedenti, ci interessa…

«In virtù della dialettica esistente, il Presidente della Repubblica può senz’altro confrontarsi con il Presidente incaricato, consigliarlo, fargli notare che una certa nomina è inopportuna, che per quel determinato ministero è preferibile un’altra figura e così via. Non di più, però. Rifiutare espressamente una nomina, in astratto, può anche ammettersi, ma solo per gravi motivi e mai per ragioni di natura politica».

Pesa l’attribuzione di “garante della Costituzione” che pende in capo al Presidente della Repubblica?

«Assolutamente sì. Nonchè i valori di cui la Carta è portatrice, insieme a meccanismi e procedure. Rimane pur sempre un arbitro, mai potendo indossare i panni del giocatore in campo. Qualora incidesse sulle scelte di natura politica che spettano al Presidente del Consiglio incaricato -a sua volta espressione della maggioranza parlamentare che lo ha sostenuto- si collocherebbe fuori della Costituzione».

Andiamo oltre. Il Quirinale potrebbe avanzare proprie candidature, cioè indicare qualche nome gradito a sé?

«Accanto al dettato costituzionale convivono le c.d. consuetudini costituzionali che disciplinano i rapporti tra gli organi di tale rilievo. Ebbene, si tratta di prassi in base alle quali e grazie alla dialettica tra i due organi, anche il Presidente della Repubblica potrebbe suggerire nomi di Ministri. Non dimentichiamo che il Capo dello Stato ha l’obbligo di garantire la miglior compagine “esecutiva” -cioè governativa- possibile».

Chiudiamo con una certezza.

«Rappresentata dal dettato costituzionale, ovvero che nella fase della nomina dei ministri il ruolo decisivo spetta a colui che ha il potere di “proposta”, cioè al Presidente del Consiglio, non a colui che ha il potere di “nomina”, ovvero al Presidente della Repubblica. Quest’ultimo ha il potere di valutare ogni singola proposta, non per sindacarne il merito politico, ma esclusivamente per assicurare il rispetto dei valori costituzionali e delle regole del gioco. Il Presidente della Repubblica non sceglie i ministri e non può mettere il veto sui nomi proposti dal Capo del Governo, ma ha la possibilità di consigliare, dissuadere, indirizzare».

Un pò di suspense non guasta. La posizione di Carlo Nordio, già procuratore della Repubblica di Venezia, per molti probabile Ministro della Giustizia, sta già agitando le acque…

«Il precedente di Nicola Gratteri indicato dal Presidente del Consiglio Renzi nel febbraio 2014 e stoppato -a dire dello stesso procuratore di Catanzaro- dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sembra essere troppo evidente. E troppo fresco…».

Ci perdoni. Gratteri era magistrato in carica. Nordio è andato in pensione…

«Ecco, volete la suspense…».

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Originario di Castellammare di Stabia, classe 1966, Alfonso Celotto è professore ordinario di diritto costituzionale presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre: visiting professor in numerose università europee ed americane, ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali e ha collaborato, per consulenza e per contenziosi, dinanzi alla Corte costituzionale. È stato capo di Gabinetto e capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Emma Bonino, Giuseppe Calderoli, Giulio Tremonti, Fabrizio Barca, Carlo Trigilia, Federica Guidi e Giulia Grillo. Autore di oltre 400 monografie, articoli, note e voci enciclopediche sulle principali riviste scientifiche, è commendatore della Repubblica italiana. “Fondata sul lavoro” (Mondadori, 2022) è la sua ultima pubblicazione.

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