Cendon: «Il caso di Elena ha riportato di attualità il tema del suicidio assistito»

Elena, la 69enne di Spinea malata terminale di cancro che ha scelto il suicidio assistito in Svizzera (accompagnata da Marco Cappato), ha risportato con la sua decisione al centro della cronaca la questione del fine vita. Ne abbiamo parlato con Paolo cendon, noto giurista e professore che da anni segue queste tematiche dal punto di vista legale e umano.

Professore, facciamo chiarezza dal punto di vista giuridico.

«Preliminarmente occorre partire da una prima norma del codice penale: mi riferisco all’art. 579 che occupandosi del c.d. “omicidio del consenziente” tutela il bene-interesse della vita umana che rimane indisponibile anche da parte del titolare. L’ipotesi in questione costituisce una forma particolare di “omicidio doloso” caratterizzato dal consenso della vittima, quest’ultimo elemento essenziale e positivo del fatto. La norma prevede la punizione con la reclusione da 6 a 15 anni, limite edittale che dimostra l’assoluta “importanza” della disciplina».

In pratica la persona offesa, cioè la vittima, deve esprimere il consenso alla propria morte?

«Esattamente, si tratta di un nodo giuridico-morale di grandissima importanza. L’attenzione viene posta propria sul consenso della persona offesa che deve apparire serio, esplicito, non equivoco e perdurante fino a quando il colpevole, cioè il soggetto agente, non commette il fatto, ovvero la sua uccisione. In pratica il consenso si manifesta come una sorta di “permesso” a farsi uccidere, ossia un atto di volontà del soggetto passivo che autorizza l’azione omicidiaria. Non il semplice desiderio -si badi- ma un’autorizzazione che la futura vittima concede al futuro omicida».

Riconosciamo che il tema non sia di facile interpretazione…

«Non solo per la delicatezza giuridica, quanto per la gravità “morale” della disciplina. Ad esempio, la prova del consenso fornito dalla persona offesa ad “essere uccisa”, deve essere univoca, chiara e convincente, dovendosi altrimenti ritenere sussistente l’esistenza del più noto delitto di omicidio volontario previsto dall’art. 575 del codice penale. Il nostro ordinamento considera assolutamente prevalente il diritto alla vita, diritto personalissimo che non permette l’attribuzione a soggetti terzi del potere di disporre dell’integrità fisica altrui, cioè, in estrema sintesi, della propria vita fisica. Neanche se dovesse trattarsi di uno stretto familiare».

E se il soggetto passivo dovesse essere affetto da una patologia psichica?

«Ci avviciniamo al tema della nostra conversazione. Se la “vittima” soffre, ad esempio, di una severa patologia psichica che incida sulla piena e consapevole formazione del consenso alla propria eliminazione fisica -cioè al proprio omicidio- mancando elementi di prova univoci circa la effettiva e consapevole volontà della stessa vittima di morire, verrebbe ad essere configurato il delitto di “omicidio volontario” e non l’“omicidio del consenziente” perché, come detto, nel nostro ordinamento deve sempre attribuirsi prevalenza al diritto alla vita indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere della vittima stessa e della percezione che altri possono avere della qualità della sua vita».

Proprio in questi giorni, con la vicenda di Elena, il tema è ritornato di assoluta attualità…

«Elena era la donna veneta che per poter accedere a una procedura di suicidio assistito era stata accompagnata in Svizzera, lo scorso 1 agosto, da Marco Cappato, attivista dell’Associazione Luca Coscioni. Elena, conosciuta anche con il nome di fantasia Adelina, aveva 69 anni ed era affetta da una patologia polmonare irreversibile: ma non aveva diritto all’accesso al suicidio assistito in Italia dal momento che non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, condizione citata espressamente dalla Corte Costituzionale nella sentenza con cui ha depenalizzato, in alcuni casi, il suicidio assistito».

A questo punto la norma di riferimento è l’art. 580 del codice penale…

«Si tratta, in particolare, del c.d. “aiuto al suicidio”, fattispecie censurata di parziale illegittimità dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 22 novembre del 2019, la n. 242. A tale autorevole pronunciamento si è pervenuti a seguito della questione di legittimità sollevata dalla Corte di Assise di Milano il 14 febbraio del 2018, chiamata a giudicare in merito al celebre caso di aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo. In quel procedimento imputato risultava essere proprio l’onorevole radicale Marco Cappato».

Crediamo sia opportuno ricordare l’operato della Consulta …

«La Corte costituzionale sottolineò come dovere indifferibile dello Stato sia tutelare la vita di ogni individuo e non riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato stesso o da terzi un aiuto a morire. In pratica, dal diritto alla vita non può derivare il diritto di rinunziare a vivere, ovvero un vero e proprio diritto a morire. Da quella sentenza, la ratio dell’artt. 580 del codice penale può agevolmente essere scorta, alla luce dell’attuale quadro costituzionale, nell’assoluta tutela del diritto alla vita soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che il nostro ordinamento intende proteggere nelle ipotesi di scelta estrema e irreparabile come quella del suicidio».

Il tema coinvolge libertà, diritti e sentimenti…

«Di difficile composizione, direi. La ratio dell’attuale disciplina assolve allo scopo, assolutamente attuale anche in questi ultimi giorni, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che dovessero decidere di porre in atto l’estremo e irreversibile gesto del suicidio, subiscano interferenze esterne».

Professore, in particolare c’è un profilo che occorre ben evidenziare.

«Lo fa fatto la Corte, sottolineando un’area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi, come nel caso di Dj Fabo, in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trovava assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti -al contempo- capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Il malato avrebbe già potuto prendere la decisione di morire.

«Esatto, in base alla legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti di soggetti terzi (il coniuge, i figli…) tramite la richiesta di interrompere i trattamenti sanitari, attualmente in atto, a sostegno della vita, e di contestuale sottoposizione alla sedazione profonda e continua, per come previsto dalla legge 219 del 22 dicembre del 2017, che norma il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento. In pratica, la situazione cui era approdata la giurisprudenza ordinaria all’epoca delle sentenze sui casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro».

Ricordiamo brevemente questi due drammatici casi.

«Welby morì il 20 dicembre del 2006, all’età di 61 anni, a seguito del distacco del respiratore artificiale e previa somministrazione di sedativi, dopo che aveva chiesto più volte che venisse posto termine alla sua vita a causa delle sue condizioni: era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale “distrofia fascioscapolomerale”. La sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato collegato sin dall’anno 1997».

E Eluana?

«Dopo l’incidente del 18 novembre 1992 che l’aveva ridotta in stato di coma irreversibile e permanente, definito, sovente, in letteratura medica come “stato vegetativo permanente”, Eluana Englaro è stata nutrita con sondino nasogastrico: respirava in maniera del tutto autonoma, tuttavia non era capace di intendere e volere. Dopo un anno dall’incidente, la regione superiore del cervello di Eluana andò incontro ad una degenerazione definitiva: morì il 9 febbraio del 2009, dopo 5750 giorni di stato vegetativo».

In sintesi cosa stabilisce la nostra legislazione?

«Norme alla mano, nel nostro Paese non è attualmente consentito a nessun esercente la professione medica di mettere a disposizione del paziente affetto da una patologia irreversibile e fonte per lo stesso di sofferenze psico-fisiche intollerabili, tenuto in vita a mezzo di macchinari di sostegno vitale, trattamenti diretti non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Ecco spiegato perché i malati terminali scelgono di andare a terminare i propri giorni in altri Stati in cui l’aiuto al suicidio non abbia conseguenze penali nei confronti di coloro che “agevolano” la decisione finale».

Il tema del suicidio assistito ritorna ciclicamente di strettissima attualità.

«Perché, come testè evidenziato, esiste una normativa penale che rischia di tradursi in una severa punizione per chi aiuti qualcuno – malato, stanco, esasperato, svuotato – a porre termine ai suoi giorni. Siccome si tratta di casi quasi sempre disperati, toccanti, che stringono il cuore, e soprattutto di casi in cui l’assistente potenziale sa di rischiare la galera, e ciononostante sceglie coraggiosamente di non abbandonare il parente o l’amico a un triste destino di sofferenza senza speranze, ecco che i giudici, i migliori, si trovano combattuti fra pietà, da un lato, e rispetto della norma scritta, dall’altro».

Il problema è sia giuridico che di coscienza…

«Figlio di una nuova normativa partecipe e consapevole dovrebbe essere, qui, il tendenziale scagionamento per chi abbia scelto di non voltare le spalle a una persona che soffra in modo grave; nei confronti della quale la scienza medica appaia disarmata, sostanzialmente, pure a livello di terapia del dolore; che non abbia alcuna possibilità di guarigione o di miglioramento; la cui permanenza in vita non sia legata a un trattamento di sostegno, prestato meccanicamente; che non desideri, avendolo scritto o detto in modo espresso, continuare più a vivere; che non sia in grado, per ragioni fisiche o d’altro genere, di uccidersi da solo»..

La disciplina appare a tratti crudele…

«Come non vedere in effetti, anche se differenze possono non mancare, la crudeltà di un assetto nel quale l’aiuto a porre fine all’esistenza – dinanzi a sofferenze devastanti, di pari grado – venga concesso oppure negato a seconda della dipendenza o meno, per il malato, da qualche “aggeggio ingegneristico”? Un paziente non vincolato cioè ad alcun macchinario ospedaliero per la sua sopravvivenza, e che continuando a rimanere al mondo soffra però terribilmente, senza che i farmaci riescano a lenire le sue fitte, in termini apprezzabili, non dovrebbe venire aiutato in qualche modo?».

La scienza medica utilizza il termine di “terminal sedation”.

«I medici esperti in medicina palliativa hanno individuato una serie di condizioni imprescindibili che devono verificarsi contemporaneamente per legittimare eticamente l’attuazione del protocollo di sedazione. Le situazioni necessarie sono una malattia inguaribile allo stato avanzato; la morte imminente, attesa entro poche ore o pochi giorni; la presenza di uno o più sintomi refrattari o eventi acuti terminali con sofferenza intollerabile per il paziente; il consenso informato del paziente. Mentre i primi due punti risultano subito sufficientemente chiari, vale invece la pena soffermarsi sul concetto di refrattarietà del sintomo e sul consenso del paziente, al fine di dirimere eventuali dubbi in merito».

Prego, professore.

«La Società Italiana di Cure Palliative (SICP) ha fornito la seguente definizione di sintomo refrattario: “Il sintomo refrattario è un sintomo che non è controllato in modo adeguato, malgrado sforzi tesi ad identificare un trattamento che sia tollerabile, efficace, praticato da un esperto e che non comprometta uno stato di coscienza”. Affinché un sintomo si possa considerare effettivamente refrattario, bisogna prima verificare che il suo controllo non possa avvenire attraverso altri interventi terapeutici e/o farmacologici che assicurino un sollievo tale al paziente da poter tollerare la sofferenza. Pertanto lo stato di refrattarietà di un sintomo deve essere accertato e monitorato da un’equipe esperta in cure palliative di cui facciano almeno parte medici, infermieri e psicologi».

Il consenso informato è un elemento fondamentale del rapporto di cura.

«Non significa firmare un documento cartaceo, quanto piuttosto far crescere la consapevolezza del malato rispetto alle sue condizioni e raccogliere i suoi desideri. Questo può avvenire solo all’interno di un contesto di fiducia reciproca tra medico, paziente, personale sanitario e familiari, tale per cui il consenso non è solo informato, ma anche condiviso. La decisione di iniziare la sedazione palliativa deve essere quindi compartecipata e confrontata».

Ossia presa a seguito di un confronto tra diversi punti di vista, pare di capire.

«Esatto, solo a seguito di un’adeguata ed esauriente informazione sui sintomi della fase terminale, sugli obiettivi e sulle modalità della sedazione. Inoltre è fondamentale rispettare i desideri del paziente, anche nel caso siano di segno opposto a quelli dei familiari oppure nel caso il paziente rifiuti il trattamento: sofferenza e dolore sono percepiti in modo soggettivo e ognuno di noi può attribuirgli un significato personale oppure scegliere di mantenere un contatto con il mondo che lo circonda fino al momento della morte».

Entrare nel tunnel della “terminal sedation” equivale andare incontro a un’abbreviazione del tempo che resta da vivere.

«Se io so di avere i giorni contati, se mi rendo conto che mi aspetta una prospettiva di dolori più o meno terribili, se non sono nemmeno sicuro di azzerarli al 100% con la terminal sedation (chi lo sa?), che significato ha costringermi a imbottirmi di morfina quotidiana, obbligarmi a “vegetalizzarmi” per qualche giorno o per qualche settimana solo per compiacere i sacri dogmi, di chi, in nome di che?».

Professore, proviamo a sintetizzare.

«La Corte ha stabilito che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto a morire (patologia irreversibile, grave sofferenza fisica e psichica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli) abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico, che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro, e che lo stesso sia stato sufficientemente informato».

Sarà il giudice a verificare l’esistenza di tali requisiti.

«Nel caso concreto, allo scopo di valutare il rispetto dei suddetti limiti di ammissibilità del c.s. suicidio assistito».

***

Il caso di Elena

Elena, 69 anni, originaria di Spinea, nel veneziano, era affetta da un tumore in fase terminale, un microcitoma polmonare diagnosticatole nel luglio 2021: i medici le avevano diagnosticato poche possibilità di sopravvivere e pochi mesi di vita. Accompagnata da Marco Cappato, è morta in una clinica svizzera dove si è potuta sottoporre al c.d. “suicidio assistito”. Proprio il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, autodenunciatosi, rischia ora, per quanto previsto dall’art. 580 del codice penale, sull’ c.d. “aiuto al suicidio” sino a 12 anni di reclusione. E così lo scorso 2 agosto la donna ha potuto portare a termine il suo intento suicidiario. In particolare, proprio ai fini della successiva incriminazione che potrà riguardare Cappato, la donna non poteva contare su alcun supporto vitale per vivere, tranne che su una cura a base di cortisone, condizione che ha indotto il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni ad autodenunciarsi per il reato di aiuto al suicidio: infatti, il caso di Elena non rientra tra quelli contemplati dalla Corte Costituzionale in tema di suicidio medicalmente assistito. Come riportato nell’intervista del Prof. Cendon, Elena non era, infatti, tenuta “in vita da trattamenti di sostegno vitale”, ovvero non ci si trovava in uno dei quattro elementi previsti dalla sentenza, la 242 del 2019, dalla Consulta, per come avvenuto nel caso Cappato\Dj Fabo per l’accesso alla tecnica in Italia. Ora, nei confronti di cappato la Procura di Milano aprirà un fascicolo di indagine per l’ipotesi contemplata dall’art. 580 comma primo del codice penale.

Leggi su panorama.it