Cinema: se lo spettatore entra nella giuria

Il caso Goldman, film appena presentato al Festival di Cannes tra critiche entusiastiche, racconta la storia vera di un rapinatore ebreo e militante di sinistra, a processo nel 1976 in Francia per un duplice omicidio di cui si dichiarava innocente. Al pubblico in sala spetterà l’ardua sentenza.


«Il processo Goldman secondo me è esemplare perché, come spesso capita, si è trattato di un giudizio in cui non c’erano prove schiaccianti e in cui la pronuncia di colpevolezza o innocenza si basava sull’uso della parola e sulla capacità dialettica dell’imputato, dei testi e degli avvocati. Ed è sempre molto difficile rendere giustizia quando non ci sono prove». Cédric Kahn, 57 anni, regista francese di La noia, che aveva già dedicato un film al serial killer veneziano Roberto Succo, si occupa di un nuovo caso criminale ne Il caso Goldman che, dopo l’anteprima al Festival di Cannes, arriva sugli schermi il 30 maggio. Un film tesissimo, appassionante, in cui come dice lo stesso regista «lo spettatore si ritrova nel ruolo di un giurato e deve formare un proprio convincimento circa l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato». Il film racconta il vero caso giudiziario di Pierre Goldman (uno straordinario Arieh Worthalter), arrestato e condannato nel 1975 per aver compiuto quattro rapine a mano armata che portarono alla morte di due farmaciste. L’uomo, che si è sempre dichiarato innocente, si appresta ad affrontare il processo d’appello con l’aiuto dell’avvocato Georges Kiejman (Arthur Harari), liquidato (e poi nuovamente incaricato) da Goldman perché considerato un ebreo «in pantofole» rispetto alla propria indole di ebreo radicale, cresciuto da genitori ebrei comunisti e partito per partecipare alla guerriglia in Venezuela prima di tornare a Parigi e trasformarsi in un criminale guidato da un codice etico che gli impone di non uccidere.

Il processo in breve si trasforma in una rissa verbale, con Goldman che prende la parola contro il parere dell’avvocato, e si scaglia contro il razzismo della polizia, dichiarando con tutte le forze la propria innocenza dal reato di omicidio, ma riconoscendo di essere un rapinatore. Sfuggente e provocatorio, l’uomo si avvicina rischiosamente alla condanna a morte, ma diventa in breve un’icona per gli innocentisti. «Questo caso è stato emblematico negli anni Settanta in Francia» spiega Kahn, «e in quegli anni Goldman è diventato veramente un simbolo per la sinistra, che si è identificata moltissimo in lui. Questo però non ha sollevato il velo di una grande ambiguità calato sulla sua persona perché, anche se l’opinione pubblica lo difendeva, durante il processo si addensarono enormi dubbi sul fatto che potesse essere colpevole».

Perché ha voluto raccontare questa storia?

Principalmente per due motivi. Il primo è che in Francia c’è una grande fascinazione per i «cold case», i casi irrisolti o in cui non si è certi della soluzione processuale. Il secondo è che non volevo indagare per scoprire se Goldman fosse o meno colpevole, ma realizzare un film che riguarda l’esercizio della giustizia, in cui la verità può spostarsi continuamente durante l’esecuzione del processo.

Lei è nato nel 1966: era troppo giovane all’epoca per ricordare quella vicenda giudiziaria.

I miei genitori erano intellettuali di sinistra e ricordo di averne letto in qualche libro nella loro biblioteca o di averli sentiti parlarne. Però è da adulto che ho letto il libro eccezionale scritto da lui stesso, intitolato Memorie oscure di un ebreo polacco nato in Francia.

Come si è documentato sul processo?

Non c’erano atti dettagliati perché all’epoca non si redigeva un resoconto del procedimento e così abbiamo ricostruito tutto attraverso gli articoli pubblicati sui giornali dell’epoca. Io e la mia co-sceneggiatrice, Nathalie Hertzberg, abbiamo intervistato a lungo anche Georges Kiejman, l’avvocato dell’accusato.

E come ha scelto il protagonista, Arieh Worthalter, che dà un’interpretazione vibrante di Goldman?

Non mi interessava un attore che somigliasse fisicamente a Goldman, che era molto più scuro di carnagione, e infatti fu scambiato per un arabo. Arieh mi ha colpito per la sua energia, oltre al fatto che ha doti che solitamente non si trovano in molti attori: una certa prestanza fisica e notevoli capacità intellettuali.

Le udienze nel film sono molto movimentate. Come mai?

Forse ho un po’ esagerato i disordini e la partecipazione in aula del pubblico per ragioni cinematografiche. Ma è accertato che ci furono due processi, il primo molto disciplinato, in cui Goldman fu condannato, e il secondo più tumultuoso in cui emerse la personalità molto punk di Goldman che amava contestare, polemizzare e provocare, e allo stesso tempo poteva essere aggressivo e anche pacato.

Il film ha uno stile molto realistico. Si potrebbe dire che si tratta di una puntata televisiva di un famoso dibattimento ripreso dal vivo.

Per la messa in scena mi sono ispirato al famoso processo al nazista Adolf Eichmann, perché in Francia è vietato portare le telecamere in aula. Abbiamo cercato di rappresentare le udienze e l’epoca, gli anni Settanta, in modo piuttosto libero, senza essere filologici nella scelta dei costumi e cercando di usare una luce naturale nelle riprese. Volevamo ricostruire l’evento in modo realistico e oltre ad aver girato tutto in ordine cronologico, il pubblico era composto da comparse a cui abbiamo chiesto di reagire spontaneamente, come a teatro, in base a ciò che succedeva in scena.

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