Cinquant’anni fa l’incontro Ali-Foreman, nella giungla la boxe divenne leggenda

Chi dice pugilato pensa subito ad Ali-Foreman. Anche cinquant’anni dopo. Quello del 30 ottobre 1974 a Kinshasa rimane ‘Il combattimento’, come da titolo del libro che ne trasse il grande Norman Mailer, il più importante che la nobile arte abbia mai prodotto. E’ qualcosa che ha segnato una generazione di amanti dello sport, e rimarrà un ricordo incancellabile dell’epoca in cui sul ring salivano dei Re.

Su quel match per il titolo mondiale dei pesi massimi – visto in tv da un miliardo di persone, un quiarto della popolazione mondiale – sono stati scritti libri e girati film, uno dei quali, “Quando Eravamo Re”, ha vinto l’Oscar come miglior pellicola-documentario. Quella magica sfida ha cambiato la vita di chi l’ha disputato, perché  Ali, “Il Più Grande” come si autodefiniva e da molti veniva considerato, tornò  sul trono del mondo, mentre “Big George” Foreman ebbe una crisi mistica che quasi lo spinse a lasciare il pugilato (lo fece, una prima volta, tre anni dopo). In seguito si mise a fare il pastore evangelico, riconquistò il titolo nel 1994, a 45 anni, e nel frattempo divenne anche grande amico di Ali, con il quale, rivelò in seguito, aveva lunghe conversazioni telefoniche. Anche dopo che l’ex rivale aveva cominciato a manifestare dare i primi segni del male, il morbo di Parkinson, che avrebbe caratterizzato la seconda parte della sua vita.

“Rumble in the jungle”, rissa nella giungla, il superincontro che il dittatore megalomane dello Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo) Mobutu Sese volle ospitare garantendo ai due contendenti una borsa, stratosferica per quell’epoca, di 5 milioni di dollari a testa. “E’ stata la cosa più grande che abbia fatto nella mia vita, l’orgoglio del popolo nero”, disse il promoter Don King. Ma soprattutto è stata una magia irripetibile, per l’atmosfera che avvolse il match e per lo spessore dei due contendenti. L’uno contro l’altro in un incontro che avrebbe dovuto svolgersi 6 settimane prima ma venne rinviato per una ferita riportata in allenamento da Foreman: erano l’ex campione che non voleva più essere chiamato Cassius Clay e dai bookmaker veniva dato per sfavorito, e quel “Big George” che – come Ali a Roma ’60 – aveva vinto nel 1968 l’oro olimpico e poi si era confermato un campione anche tra i professionisti, con meno stile rispetto al rivale ma grazie alla “dinamite” dei suoi colpi.

Era quindi il match tra l’uomo dal pugno d’acciaio, il massacratore del ring che aveva fatto letteralmente volare via uno come Joe Frazier, contro il fuoriclasse che danzava come una farfalla e pungeva come un’ape: insomma, due modi opposti di concepire la boxe. E probabilmente anche la vita, perché Foreman, all’epoca ardente patriota, non avrebbe mai rifiutato di andare in Vietnam, come fece Ali, e per questo era ben visto da buona parte dell’opinione pubblica americana, desiderosa che ci fosse qualcuno che tappasse finalmente la bocca al “Labbro di Louisville”, quel fuoriclasse che non stava mai zitto e adorava declamare poesie non tutte frutto della sua immaginazione.

Ma in Africa era diverso. Ali si sentiva tornato a casa, e stava in mezzo alla gente, parlava senza sosta incantando quei tifosi pazzi di lui che gli urlavano “Ali Boma ye”, “Ali uccidilo”, perché secondo il popolo dello Zaire, e delle baracche vicine al fiume Congo, quel colosso di poche parole, ovvero Foreman, era diventato un traditore, il nero che si era venduto ai bianchi diventando quasi uno di loro. Così a Kinshasa era rimasto solo e poco amato: all’arrivo scendendo dalla scaletta dell’aereo si era fatto precedere da un pastore tedesco, proprio il tipo di animale che, quando il Congo era una colonia belga prima di diventare Zaire, era usato dagli occupanti come cane poliziotto per le spedizioni punitive.

Poi, finalmente, il match: le prime sei riprese erano state un tormento per Ali, martellato dai colpi dell’avversario. Ma “Il più grande” aveva imparato ad alzare la soglia del dolore facendosi colpire ripetutamente, in allenamento, dallo sparring partner Larry Holmes. Ali aveva fatto sfogare il nemico; nell’ottava ripresa inventò il proprio capolavoro, sotto forma di una serie di colpi chiusa da un micidiale destro che costrinse alla resa il rivale. Così quella notte riconquistò il titolo dei massimi e sotto la pioggia di Kinshasa venne di nuovo proclamato Re, e uomo più forte della terra.

“Dopo averlo tanto odiato, adesso io amo Ali – dirà Foreman molti anni dopo, quando la Fede aveva cambiato la sua vita -: è stato l’ uomo migliore che abbia mai avuto la boxe, mentre io sono stato solo uno che picchiava gli altri”. In realtà “Rumble in the Jungle” è stata una delle maggiori imprese sportive di tutti i tempi: l’intelligenza e la furbizia ebbero la meglio sulla forza bruta. E l’arte della boxe fu nobile per sempre.

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