Come un anno fa la politica si arrende e si aggrappa a Mattarella

Alla fine nulla è cambiato. Sergio Mattarella resta al Quirinale. Al termine di una delle settimane più imbarazzanti per la storia della politica italiana i partiti, i loro segretari, si arrendono e con in capo chino sono corsi al Quirinale per chiedere un ulteriore sforzo ad un uomo che, più volte, aveva chiesto di essere liberato dal suo incarico.

La politica così china ancora il capo. Esattamente come 12 anni fa quando tenne il paese sospeso (in uno dei periodi più bui della storia, in piena pandemia, con la campagna vaccinale agli inizi e l’economia in ginocchio) alla ricerca di un nuovo governo senza riuscirci. Allora Mattarella mise tutti dietro la lavagna, in castigo, chiamò il super professore (Mario Draghi) a cui affidò l’esecutivo e la nazione con un solo avvertimento ai vari partiti: «adesso tacete e fate quello che dice lui, come dei bravi bambini…».

Un anno dopo la storia si è ripetuta: Lega, M5S, Pd, Forza Italia, Italia Viva hanno fallito. Nessun accordo è stato trovato al termine di giornate infarcite di dichiarazioni così banali da stufare anche i poveri commentatori. I segretari dei vari partiti si sono scoperti deboli, fuori posto e fuori luogo. Nessuno (a parte Giorgia Meloni non a caso l’unica oggi a schierarsi contro il Mattarella Bis per puro spirito di coerenza con la sua opposizione al Governo) è stato in grado di controllare i propri grandi elettori, i propri voti.

E così alla fine hanno vinto i cosiddetti «peones» spesso sbeffeggiati, spesso considerati soldati semplici ma capaci, questa volta, di mettere all’angolo i teoremi dei vari Salvini, Renzi, Letta, Conte, Di Maio, Toti e chi più ne ha, più ne metta.

Peones dopo peones il nome di Mattarella è diventato una vera e propria onda, inarrestabile. Anche perché la lontananza da casa (e non stiamo scherzando) stava diventando un fattore determinante. Soprattutto i delegati regionali si sentivano a disagio nei palazzi romani davanti all’inutilità di vertici e controvertici.

La cosa ancora più imbarazzante è che hanno pure avuto il coraggio di applaudire davanti a questa soluzione che, di sicuro, è la sconfitta totale per questa classe politica.

Che da domani si ritroverà ancora più divisa, spaccata. Il centrodestra esce a pezzi, anzi, a brandelli. Salvini ha giocato la sua prima partita da leader vero della coalizione ed ha fallito, anzi. Non solo non è riuscito a dare al centrodestra un Presidente della Repubblica dopo 30 anni, ma è anche riuscito a rompere in maniera difficile da ricostruire con Forza Italia. C’è poi da gestire il caso Giorgetti. Il Ministro dello Sviluppo Economico sarebbe sul punto di dimettersi non si sa se per motivi personali o per i dissidi con il leader del suo partito. Ma è tensione che si somma a tensione.

Il partito di Berlusconi invece ha pagato lo scotto più pesante con la sconfitta della Casellati, impallinata da quasi 60 franchi tiratori del centrodestra nella conta della quinta votazione e dalle dichiarazioni per nulla nascoste di chi, diciamo, non ha grossa stima del Presidente del Senato proprio all’interno del suo partito. Un partito che resta in piedi solo per la presenza del suo fondatore le cui problematiche condizioni di salute stanno diventando però un fattore di debolezza.

Se a destra siamo alle macerie a sinistra si prova a festeggiare una situazione che forse è ancora più complessa. Basti ricordare che ieri sera Conte, il segretario del Movimento 5 Stelle, principale alleato della coalizione con il Pd, aveva trovato un accordo per Elisabetta Belloni con Lega e Fratelli d’Italia tradendo Letta.

Scelta che ha fatto infuriare chi nel Pd da tempo non vede di buon occhio l’alleanza con i grillini per le prossime politiche. Ma senza i voti dei penta stellati la sinistra non ha alcuna possibilità di successo tra 14 mesi.

Il Partito Democratico ha fatto scena muta per 6 giorni: non un nome, non una proposta, non una carta giocata. Nulla. Immobilismo farcito da frasi senza alcun peso ma che, visto il finale, forse era la scelta più intelligente. Letta ha chiesto nuove regole per la politica, per rendere il paese governabile. Peccato che il proporzionale sia l’esatto contrario.

Tornando al Movimento ormai le due anime sono troppo evidenti per non parlarne. Grillo e Conte da una parte, Di Maio ed i suoi (si dice circa 90 grandi elettori) da un’altra. Più divisi che mai, con un solo progetto: arrivare al termine naturale della legislatura per poter salvarsi lo stipendio il più a lungo possibile prima delle prossime elezioni che si abbatteranno come uno tsunami sul partito di maggioranza relativa nel 2018.

Il quadro è desolante, per leadership e non solo. E questo complica in maniera importante il lavoro del governo Draghi da oggi fino alle elezioni politiche della primavera prossima. Saranno 14 mesi in cui i partiti inevitabilmente peseranno ogni scelta sulla bilancia del riscontro elettorale. Difficile farlo con Draghi alla ricerca di un’accelerata nel suo lavoro e non di un freno.

Difficile capire cosa succederà, difficile capire però con che faccia questa politica si presenterà a chiedere il voto degli italiani tra un anno.

Oggi come un anno fa Mattarella, accettando la loro richiesta disperata, li metterà ancora in castigo dietro la lavagna. Siamo certi che molti italiani apprezzerebbero come primo gesto del suo secondo mandato una bella bacchettata sulle mani, come facevano i maestri di tanti anni fa agli studenti che non facevano i compiti.

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