sabato, 23 Novembre 2024
Così furono fatte sparire le carte del «Lodo Moro» dal centro Sismi «Bermude» di Beirut
A Beirut, nel gennaio 1980, nel cosiddetto Centro “Bermude”, l’ufficio dei Servizi segreti italiani in Libano ospitato all’interno dell’Ambasciata, ci fu disperata, affannosa corsa per far sparire i documenti segreti e compromettenti dei rapporti spericolati che il nostro Paese teneva con i palestinesi e continuare così a nascondere l’esistenza del «Lodo Moro».
È una delle nuove, clamorose, rivelazioni che emergono dalla “declassificazione” disposta dal governo Meloni di centinaia di documenti dei Servizi segreti italiani, finora coperti dal segreto di Stato e relativi al «dossier Giovannone», dal nome del colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, nome in codice «Maestro», che fu capocentro del Sismi in Libano e negli anni Ottanta – gli anni delle più gravi stragi italiane, da quella di Ustica a quella della stazione di Bologna – impegnato dal governo italiano a gestire, dal Medioriente, i difficili rapporti tra l’Italia e le organizzazioni palestinesi.
La situazione già molto complessa, divenne incandescente dopo l’arresto, avvenuto a Ortona nel novembre 1979, di tre rappresentanti romani dell’organizzazione dell’estrema sinistra Autonomia operaia, Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner, Luciano Nieri, e del giordano Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (Fplp).
L’arresto fu determinato dalla scoperta di due missili terra-aria Sam Strela 7, sequestrati ai tre autonomi nel piccolo centro di Ortona, vicino a Chieti: i tre vennero fermati dai carabinieri per un controllo e portati in carcere nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979.
Il 13 novembre fu arrestato a Bologna, dove viveva, anche Saleh, accusato di essere loro complice, e tutti e quattro furono rinviati a giudizio per direttissima.
Subito, però, il Fplp cominciò a minacciare attentati contro gli interessi italiani, proprio per vendicarsi di quella che ritenevano una gravissima violazione unilaterale da parte dell’Italia del cosiddetto Lodo Moro.
La documentazione ora in possesso di Panorama.it , recuperata dalla ricercatrice Giordana Terracina all’Archivio Centrale dello Stato dov’era depositata, consiste di 429 pagine, che ricostruiscono minuziosamente – attraverso gli scambi di messaggi fra Giovannone e i vertici dell’intelligence italiana e fra questi ultimi e il governo dell’epoca – quel periodo buio della Repubblica: un momento dominato dagli allarmi per la crescente minaccia palestinese di attentati ad aerei, ambasciate e altri beni dell’Italia, nel quale appare evidente lo sbandamento delle istituzioni italiane, poste sotto ricatto dalle organizzazioni arabe.
Nel caso dei missili di Ortona, il Fplp tenta in tutte le maniere di riavere le micidiali armi sovietiche terra-aria, oppure di ottenere, in cambio, 60.000 dollari. Un vero e proprio ricatto.
L’obiettivo principale del Fronte, peraltro, è far liberare Abu Anzeh Saleh, ufficialmente in Italia per motivi di studio (e incredibilmente protetto dall’allora Pci, che si prodigò, raccontano le carte mai smentite, per impedirne l’espulsione, richiesta ripetutamente dagli 007 italiani), e i tre autonomi.
Un copione che si ripeterà varie volte anni dopo quando le organizzazioni arabe torneranno alla carica, con lo stesso, identico, approccio: minacciando attentati ritorsivi, per far liberare dall’Italia altri esponenti dell’Fplp, come Yousef Hasry El Tamimy, arrestato a Fiumicino il 5 gennaio 1982 assieme alla compagna, la tedesca Brigitte Pangedam, perché trovati in possesso di 14 detonatori.
Le carte ora declassificate confermano la consuetudine delle organizzazioni terroristiche arabe a utilizzare l’Italia, negli anni Settanta e Ottanta, per trasportare, da una parte all’altra della penisola, carichi di esplosivi, detonatori e armi su treni, aerei, o in auto, incuranti del terribile rischio che questo rappresentava. E confermano anche come le stesse organizzazioni, una volta che i terroristi fossero stati intercettati e scoperti, pretendevano che venissero liberati come se nulla fosse, reclamando persino il diritto di vedersi restituito – o pagato – il materiale sequestrato.
Va ricordato, al proposito, quanto Francesco Cossiga scrisse a proposito della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 nel libro considerato il suo testamento politico-istituzionale, “La versione K” (Ed Eri-Rizzoli, 2009): «Su Bologna, la mia l’ho detta e la ripeto. Per me fu un incidente, un drammatico incidente di percorso: fu, con molta probabilità, una bomba trasportata da terroristi palestinesi che non doveva essere innescata in quell’occasione e che, invece, chissà perché, per un sobbalzo, una minaccia, un imprevisto, scoppiò proprio in quel momento».E non è un caso che la vicenda dell’affannosa distruzione dei documenti segreti e compromettenti custoditi nel Centro Sismi di Beirut (soprannominato «Bermude») ruoti proprio intorno alla figura di Cossiga, presidente del Consiglio dal 5 agosto 1979 al 18 ottobre 1980, tenuto evidentemente all’oscuro degli accordi stipulati fra il Sismi e i palestinesi.
Per comprendere bene il significato di quanto emerge dai documenti desecretati, bisogna sempre ricordare che il sequestro dei missili a Ortona avviene il 7 novembre 1979, e che la strage di Bologna è del 2 agosto 1980. Nel corso di quei mesi delicatissimi le minacce dell’Fplp sono un crescendo inquietante, giorno dopo giorno.
In quel periodo così complicato, a Beirut il Sismi fa capo all’uomo di fiducia di Aldo Moro, il colonnello Stefano Giovannone (Moro ne invocherà la sua presenza a Roma durante il suo sequestro da parte delle Brigate rosse).
Giovannone ha rapporti diretti con tutti i capi delle organizzazioni palestinesi. E il suo obiettivo è tenere l’Italia immune (“neutralizzata” è scritto nelle carte) dal rischio di attentati terroristici che, all’epoca, insanguinavano l’Europa.
Così il 15 gennaio 1980 Giovannone scrive ai suoi capi dei Servizi a Roma un messaggio concitato: «Sto provvedendo vuotare praticamente Bermude carteggio e documentazione non distruggibile in tempi brevi in caso emergenza, analogamente quanto da ambasciata per proprio archivio alt fine».
Che cosa sta accadendo? Perché Giovannone è così preoccupato? Cos’è che lo spinge a smobilitare di corsa la documentazione dei suoi rapporti intessuti con le organizzazioni palestinesi?
Cinque giorni prima, il 10 gennaio 1980, mentre a Chieti è in corso il processo per direttissima per il sequestro dei missili di Ortona, il colonnello Giovannone informa il generale Santovito, a capo dell’intelligence, che sta cercando di impedire un passaggio che reputa pericoloso: si tratta della consegna a Mauro Mellini, avvocato difensore dei quattro imputati nonché parlamentare radicale, di una «lettera aperta» che il Fplp vorrebbe fosse letta in aula davanti ai giudici di Chieti.
Nella missiva, il Fronte popolare di liberazione della Palestina intende chiedere la testimonianza nel processo del presidente Cossiga e dell’ex-direttore del Sid, il Servizio informazione difesa, generale Miceli.Lo scopo? Dimostrare l’esistenza del Lodo Moro.
Sarebbe una catastrofe per Giovannone, che ha agito sì per conto di Moro, ma ne ha sempre tenuto all’oscuro Cossiga. E sarebbe anche un problema gigantesco da gestire, non solo verso gli alleati della Nato e nei confronti dell’opinione pubblica – ovviamente ignara che lo Stato italiano si è accordato con i terroristi – ma anche verso l’ambasciatore italiano a Beirut, Stefano D’Andrea, con cui i rapporti sono roventi e la convivenza in ambasciata difficilissima perché la presenza nella sede consolare del capocentro Sismi e il suo iperattivismo nelle relazioni con le varie organizzazioni arabe ha finito per creare una sorta di doppio binario diplomatico, per molti versi imbarazzante e fonte di pericolosi malintesi.
La lettera aperta che i palestinesi, spinti dalla Libia, vorrebbero fosse letta in aula riferisce anche che, subito dopo gli arresti di Pifano, Baumgartner, Nieri, e di Abu Anzeh Saleh, il Fplp riteneva di aver chiarito la questione all’ambasciata italiana di Beirut che poi aveva risposto di aver riferito tutto al governo: i missili erano danneggiati e inutilizzabili, erano semplicemente in transito sul territorio italiano e i rappresentanti di Autonomia operaia ignoravano il contenuto delle casse, così come Saleh.Il problema è che Giovannone e il Centro “Bermude” non sono l’Ambasciata italiana. E che Giovannone si è ben guardato dal riferire al governo.
Gli sforzi del capocentro del Sismi a Beirut sono inutili. E il 10 gennaio 1980 l’avvocato Mellini legge, in udienza, la lettera dell’Fplp.Ovviamente, scoppia un pandemonio. Anche perché, poco dopo, lo stesso Mellini e altri parlamentari radicali presentano un’interpellanza parlamentare al governo per chiedere lumi.A quel punto, il caso politico è inevitabile.Cossiga, infuriato, convoca il generale Santovito. Che è costretto a raccontare tutta la verità al presidente del Consiglio.Tre giorni dopo, il 13 gennaio 1980, il Sismi invia un appunto a Cossiga tentando di ridimensionare i fatti: Mellini viene accusato di aver messo in atto una strumentalizzazione politica con i radicali, mentre il Fplp nega di aver chiesto l’audizione testimoniale di Cossiga. Il governo può, a quel punto, rispondere all’interpellanza negando agevolmente l’esistenza del Lodo.
Ma l’ambasciatore italiano in Libano, D’Andrea, è furibondo perché, in effetti, non ha mai avuto alcun rapporto con l’Fplp. E dirama un comunicato stampa. Che nessuna agenzia italiana pubblicherà mai.Il 15 gennaio 1980 Giovannone chiede al Sismi, con un fonogramma urgente, d’intervenire per placare D’Andrea. E, nello stesso documento, dopo aver ricordato che, nei suoi rapporti con palestinesi e altri gruppi armati (eritrei, somali, sciiti), non ha mai dichiarato di rappresentare l’ambasciata e di non aver mai fatto entrare esponenti del Fplp nei locali della sede diplomatica, scrive il messaggio che abbiamo visto: «Sto provvedendo vuotare praticamente Bermude carteggio e documentazione non distruggibile in tempi brevi in caso emergenza, analogamente quanto fatto da ambasciata per proprio archivio alt fine».La segretezza del «Lodo Moro» è salva. O, almeno, così pare. Ma i documenti ora declassificati dal governo Meloni ne confermano, invece l’esistenza. E senza più alcun dubbio.