Crescono i contagi da Covid e, in più, ci sono dubbi sul Paxlovid

Mentre i numeri del Covid sono in brusca risalita in tutto il mondo, e in Italia il numero di attualmente e ufficialmente positivi ha raggiunto il milione di persone (anche se secondo gli esperti è verosimile che siano tre volte tanto) l’effetto “rimbalzo” presumibilmente causato dal Paxlovid ha colpito anche Anthony Fauci, celeberrimo consulente del presidente Joe Biden per la pandemia da coronavirus: il medico, 81 anni, dopo aver contratto il Covid e assunto l’antivirale della Pfizer in quanto paziente a rischio, ha sperimentato sulla sua pelle il “rebound”, il ritorno della positività pochi giorni dopo il tampone negativo da guarigione.

Non è il solo; oltre a un cospicuo (ma aneddotico, data l’assenza di studi importanti) numero di pazienti che lamentano il ritorno dei sintomi e della malattia dopo l’assunzione di Paxlovid e scrivono le loro esperienze alle testate giornalistiche o sui social, diversi altri illustri medici e infettivologi sono andati incontro a questo fenomeno e stanno contribuendo ad alimentare il dibattito scientifico e a cercare possibili spiegazioni e soluzioni: primo fra tutti, il dottor David Ho, uno dei pionieri nella lotta all’immunodeficienza acquisita e attuale direttore del centro di ricerca sull’AIDS Aaron Diamond della Columbia University, che in una intervista rilasciata a un canale all-news statunitense ha raccontato la sua esperienza di “rimbalzo”, a sei giorni dal tampone negativo e dopo aver assunto Paxlovid. Secondo il dottor Ho, che ha portato avanti di sua iniziativa un piccolo studio su 10 persone con ricaduta dopo l’assunzione di nirmatrelvir/ritonavir, non è verosimile che l’effetto rebound fosse collegato solo all’infezione, ma deve essere necessariamente legato al farmaco: nonostante da Pfizer ritengano che il ritorno di un RNA virale non sia associato al trattamento perché nei trial il ritorno della positività era uguale sia nei pazienti trattati con l’antivirale che in quelli non trattati.

IL DIBATTITO NEGLI STATI UNITI

Il problema negli Stati Uniti è così sentito che l’Health Alert Network del CDC statunitense ha emesso un avviso sanitario per allertare i centri di cura sul fatto che è possibile un effetto rimbalzo tra i 2 e gli 8 giorni dopo la guarigione iniziale, ed è caratterizzato da una recidiva dei sintomi o da un nuovo test positivo. Le informazioni limitate attualmente disponibili però -sempre secondo il CDC- riportano comunque solo malattie lievi, senza alcuna segnalazione di infezione grave, e una remissione dei sintomi nel giro di pochissimi giorni, senza la necessità di trattamenti aggiuntivi con Paxlovid o con altre terapie. Anche se segnalano casi di trasmissione in famiglia: a testimonianza di una carica virale comunque alta. Si continua, ovviamente, a raccomandare fortemente l’uso dell’antivirale in quanto in grado di evitare ospedalizzazione e aggravamento per i pazienti a rischio in una percentuale che nei trial veniva dichiarata circa all’85% ma che in real life si sta dimostrando intorno al 53%. Comunque di tutto rispetto, per i pazienti fragili a rischio di malattia grave o morte.

Ciò non toglie che il problema del rimbalzo stia coinvolgendo molti centri di ricerca del Paese, divisi tra chi ipotizza che Paxlovid possa non essere responsabile delle re-infezioni, ma che invece sia Omicron con le sue sotto varianti a impiegare più tempo per eliminare il virus rispetto all’infezione originaria e alle varianti conosciute fino allo scorso dicembre, e chi invece, come appunto il dottor Ho, ha pochi dubbi sulla responsabilità dell’antivirale della Pfizer.

NESSUN ALLARME IN EUROPA

Nel Vecchio Continente, non si parla assolutamente di situazione di allarme. Sui casi di re-infezione dopo l’assunzione dell’antivirale siamo a livelli sostanzialmente aneddotici, ma nella comunità scientifica si cominciano ad avanzare diverse ipotesi: “Innanzitutto dobbiamo dire che al momento si parla un po’ ovunque nel mondo di mistero: non siamo in grado di capire se effettivamente ci sia o meno una correlazione tra l’assunzione del farmaco e il rimbalzo” spiega il professor Roberto Cauda, direttore UOC Malattie infettive, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e componente dello Scientific Advisory Group dell’Ema “La certezza che abbiamo invece è che il Paxlovid svolge benissimo il suo lavoro di protezione da ospedalizzazione e morte, e anzi penso che la platea dei beneficiari andrebbe allargata. Nella mia mente, per quanto riguarda l’effetto rebound ci sono tre ipotesi: la prima è che forse lo stiamo somministrando troppo presto (il Paxlovid va assunto entro 5 giorni dall’insorgenza dei sintomi, ndr) e così facendo il farmaco sopprime il virus e il sistema immunitario non accelera come farebbe normalmente. La seconda è che magari il trattamento dovrebbe essere più lungo e protrarsi per più dei 5 giorni previsti finora. La terza è che invece il rebound potrebbe essere intrinseco nella malattia: il Paxlovid fa il suo lavoro portando a guarigione l’individuo, ma il virus può magari essere rimasto nell’organismo innescando il rimbalzo. Parliamo sempre però di numeri molto piccoli”.

E sul fatto che negli Stati Uniti il dibattito abbia infuocato il mondo dell’informazione, e anche purtroppo risvegliato i mai sopiti movimenti no-vax (nonostante si stia parlando di un anti-virale e non di un vaccino), il professor Cauda ha una sua spiegazione: “ Penso che oltre oceano il fenomeno abbia avuto così tanto riverbero proprio perché l’effetto rimbalzo ha colpito illustri medici e infettivologi. A parte Fauci, ricordiamo infatti che David Ho è uno dei più importanti studiosi dell’AIDS, un vero pioniere nel trattamento delle infezioni dai HIV e tra i primi a curare con il cocktail di farmaci nella seconda metà degli anni Novanta. Quindi sono arrivati alla ribalta delle cronache. Ma bene così, il dibattito è sempre un’ottima cosa, nella comunità scientifica: ricordiamoci sempre che stiamo combattendo contro un virus del tutto nuovo, che non finisce mai di stupirci con le sue caratteristiche e varianti”.

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