Demi Moore e il lato oscuro dell’ eterna giovinezza

«La gente vuole sempre qualcosa di nuovo. È inevitabile. E a cinquant’anni, beh, è finita». Con queste parole in The Substance, film di Coralie Fargeat presentato al festival di Cannes e in uscita il 30 ottobre, il produttore televisivo Harvey (Dennis Quaid) dà il benservito a Elisabeth Sparkle (Demi Moore), una ex stella del cinema che, un po’ in là negli anni, è finita sul piccolo schermo a fare lezioni di aerobica in stile Jane Fonda. La donna, scartata dal suo capo che valuta le donne solo nell’equazione giovinezza uguale bellezza, decide così di aderire a un programma, che le è stato proposto in forma anonima, chiamato come il titolo del film, e riceve a casa un armamentario di siringhe, flaconi e provette insieme a una sostanza fosforescente e una serie di regole: se la inietterà nelle vene, produrrà una versione più giovane di sé, ma dopo aver vissuto per sette giorni nel proprio corpo più giovane mentre quello vecchio riposa, dovrà rientrare in quello originale per altri sette, dando luogo a un’alternanza temporale che non può essere infranta, pena tremendi effetti collaterali.

Così dopo l’iniezione, dal corpo di Elisabeth emerge Sue (Margaret Qualley), una bellissima e giovanissima versione di sé che in quattro e quattr’otto ottiene il lavoro che lei stessa ormai troppo vecchia aveva appena perso in tv, lasciando a bocca aperta Harvey con la sua sensualità. Il problema però per Sue è che assentarsi per un’intera settimana riaccomodandosi nel vecchio corpo di Elisabeth a lungo andare diventa un vero problema capace di interferire con il successo, e così decide di prolungare la sua veglia, provocando conseguenze inimmaginabili. «Quello che mi è piaciuto della sceneggiatura di Coralie è che tutto il film sposa la prospettiva maschile di una donna idealizzata, in cui noi stesse abbiamo creduto e alla quale ci siamo adeguate», spiega Demi Moore che, a 62 anni e dopo i grandi successi con film come Ghost – Fantasma, Proposta indecente e Soldato Jane, risalenti ormai a trent’anni fa, è stata un po’ messa da parte da Hollywood. «La cosa veramente interessante del film» dice la regista Coralie Fargeat «è che quando Elisabeth produce questa versione più nuova, più giovane, sexy e apparentemente migliore di sé, ottiene finalmente l’opportunità che le era stata negata, ma ripete ancora una volta il medesimo schema che va alla ricerca dell’approvazione maschile, e alla fine si trova a lottare solo con sé stessa, perché in fondo è lì che dobbiamo attuare il vero cambiamento, nel modo in cui ci comportiamo e non in cui assecondiamo chi ci guarda». La Fargeat aggiunge: «The Substance è un film che parla di come i corpi femminili siano sempre oggetto di scrutinio, fantasie e critiche all’interno del dibattito pubblico e di come noi donne siamo portate a pensare di non avere scelta se non essere perfette, sexy, sorridenti, magre, giovani e belle per avere valore nella società. Alla luce di tutto ciò, quando ho superato i 40 anni ho pensato che la mia vita sarebbe finita, che non sarei più piaciuta a nessuno, e nessuno mi avrebbe più amata o trovata interessante. E così ho deciso di scrivere questo film per affrontare la cosa. La trama può far pensare al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, ma anche ad altre storie universali che riflettono sulla condizione umana, alla paura di invecchiare, anche se qui riguarda prettamente le donne». Lungi dall’essere un noioso pamphlet sul tema, il film ha lo stile e i colori accesi dell’accattivante spot pubblicitario e non risparmia neanche un’inquadratura su dettagli orrorifici, a iniziare dal corpo di Elisabeth che si squarcia in due per far uscire la versione giovane di sé, in modo simile a quanto accadeva in L’invasione degli ultracorpi: «L’ho pensato fin dall’inizio come un horror», spiega Fargeat, «e sapevo che avrei voluto usare meno effetti digitali e più trucchi prostetici possibile, perché questo era un film sul corpo, quindi c’era bisogno di percepire la materialità della carne: il lavoro per creare un make up che fosse bello da guardare e creasse emozioni forti nel pubblico è stato lungo. Per alcune scene Demi si è dovuta sottoporre a sedute di trucco lunghe anche sette ore, mentre per altre in cui doveva apparire molto magra abbiamo usato una controfigura, anche se il lavoro più lungo è stato quello su Margaret per il gran finale del film».

Allo stesso tempo dato che di corpi si tratta, peraltro quelli bellissimi di Demi Moore e di Margaret Qualley (figlia di Andie MacDowell), non mancano nella pellicola numerose scene di nudo: «Ho usato la nudità in modo differente», spiega la regista. «Quando Elisabeth è nel suo bagno, affronta sé stessa, si guarda e si giudica ed appare senza artifici, immersa nella realtà così com’è. Quando poi vediamo Sue, il suo corpo invece è visto dall’esterno e quindi inquadrato in modo diverso perché apprezzato dagli sguardi del pubblico: per questo ho chiesto a Margaret di prepararsi al meglio con un duro allenamento di settimane in palestra, per rappresentare questo stereotipo ipersessualizzato apparentemente perfetto».

Poi naturalmente c’è la violenza al quadrato e il sangue che scorre a fiumi e non ti aspetteresti forse da una regista donna, se non fosse che Fargeat aveva debuttato con Revenge, thriller appartenente al genere gore, in cui una ragazza vittima di stupro si vendica e compie una carneficina che finisce in un massacro. «La violenza nel mio film è estrema perché la vedo come un riflesso di quella che viene riservata di solito alle donne nella società, ma per me diventa anche un modo per affermarsi. Quando sono cresciuta infatti sembrava che da femmina dovessi essere solo delicata e sensibile e che certi film di genere come l’horror fossero riservati soltanto ai maschi, che avevano dunque molta più libertà, mentre credo che non ci dovrebbero essere differenze ed infatti quando sono diventata adulta ho visto tutti quei film. E anche se a volte erano brutali, guardarli mi ha permesso di liberarmi, e sentirmi uguale a tutti gli altri».

TUTTE LE NEWS DI LIFESTYLE

Leggi su panorama.it