Dire no al velo non è discriminazione ed è una legge di civiltà

Emile Zola scrisse, in modo iconoclastico e irriverente, addirittura oltraggioso, che “La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l’ultima pietra dell’ultima chiesa non sarà caduta sull’ultimo prete.”.

C’è da capirlo, Zola è stato uno dei più noti esponenti di quel naturalismo francese che elevava la scienza al di sopra delle fedi rivelate, sostenendo un laicismo puro ed esasperato.

Zola era francese e la Francia fu la culla dell’illuminismo e del laicismo più spinto, origine della Rivoluzione e ispiratore di una società secolarizzata dove le espressioni stesse della fede erano ritenute nemiche del progresso e della civiltà.

Il mondo occidentale è andato avanti e, quantomeno in ambito cristiano, ha saputo scindere la società dalle istituzioni ecclesiastiche, garantendo a tutti i cittadini eguaglianza al riparo da ogni discriminazione.

C’è voluto, purtroppo, anche l’Olocausto ma oggi le Costituzioni dei paesi più evoluti sono tutte laiche e profondamente radicate nel concetto di uguaglianza a prescindere dalla fede professata.

Questo non è avvenuto nel mondo musulmano, rimasto ancorato a precetti medioevali e a società confessionali, dove può capitare, per esempio, che un gesto di culto non islamico sia cagione di morte.

Come può ripararsi l’Europa da un tale rischio?

Come può elevarsi a culla di tolleranza per tutte le fedi e patria delle libertà?

Attraverso sentenze come quella della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella Causa C-344/20, pubblicata questa settimana.

Passata un po’ in sordina tra bombardamenti russi e nomina dei Presidenti di Camera e Senato tale innovativa pronuncia è quanto mai attuale e opportuna.

La sentenza, storica, coraggiosa, ha stabilito che il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali sul luogo di lavoro non è una discriminazione diretta, se viene applicato in maniera generalizzata.

In questo modo la Corte ha respinto il ricorso di una donna belga, di fede musulmana, che lamentava di aver subito una discriminazione religiosa dall’azienda che l’aveva scartata da un tirocinio per il suo rifiuto di togliersi il velo sul luogo di lavoro.

Prendendo spunto dal caso in esame, la Corte di Giustizia afferma il principio secondo cui che è perfettamente lecito, per un datore di lavoro, sancire il divieto di manifestazioni esteriori di fede, purché esteso a tutte le professioni religiose, senza eccezioni di sorta.

Se il divieto non è selettivo (per esempio agli ebrei o ai musulmani piuttosto che ai buddisti o cristiani), questo non appare in contrasto con i principi generali su cui si poggia l’Europa.

Oriana Fallaci si starà spellando le mani da lassù ma a chi storce il naso ricordo soltanto che, non lontano dai nostri confini, c’è chi è morto a vent’anni perché non ha indossato il velo in modo corretto lasciando un ciuffo di capelli scoperti: mi riferisco a Masha Amini, in Iran.

L’Europa vuole essere più civile dell’Iran dei Pasdaran e della Polizia della Moralità?

Chissà se ora gli euro-giudici finiranno nel mirino di qualche invasato e dovranno guardarsi le spalle come Salman Rushdie ma io li ringrazio per il coraggio dimostrato perché il progresso passa anche da tali piccoli, grandissimi gesti.

info: missagliadevellis.com

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