mercoledì, 27 Novembre 2024
Discovery lancia un programma sul Baby-Shower perché il trash piace e funziona
Sono state feste, matrimoni e poi malattie, con dottori diventati meme (pronto, Nowzaradan?) e giganteschi container in cui spogliarsi, sono stati appuntamenti al buio, nozze alla cieca, fenomeni che la televisione ha reso nazionalpopolari. «La», però, è un articolo che mal si adatta all’occasione. Non è stata «la» televisione a intercettare le tendenze in essere, trash, sguaiate, spesso imbarazzanti quanto il titolo dei propri programmi asserisce di promettere. È stata «una» televisione, specifica, particolare. Discovery, unica, si è data la pena di leggere la contemporaneità, di usarli i social network, ma in modo furbo: per capire – o cercare di – cosa possa funzionare, cosa possa innescare quella viralità («talkability», pare d’obbligo chiamarla in gergo televisivo) che più dello share, oggi, sembra costituire l’obiettivo finale di ogni show. Perciò, dopo aver trasformato in reality i bypass gastrici, aver raccontato il folklore di Napoli, i Boss delle sue Cerimonie, Don Antonio, il pono pomellato, castelli e serenate, fuochi d’artificio, Discovery avrebbe deciso di passare oltre. Alle feste, quelle che precedono la nascita.
Lo ha raccontato TvBlog, in anteprima. Real Time avrebbe deciso di costruire un programma sui baby shower, non docce ma festicciole. Eventi, il più delle volte, sontuosi pure. Perché la moda di accogliere il nascituro con pasticcini in tinta e giochi di ruolo, con regali da consegnarsi a madri emozionate, è arrivata dagli Stati Uniti, e come tutto quel che spira da Occidente è arrivata in grande. I baby shower sono diventati enormi: una gara fra madri moderne, schiave di Instagram e dell’impulso irrefrenabile a cercare la foto migliore. Un impulso sul quale Discovery avrebbe deciso di imbastire una narrazione, a mezza via tra il dire ironico e il ligio dovere di cronaca che i documentari portano con sé. Il Gruppo vorrebbe un «docureality», un altro. E poco importa, in questa sede, quale possa essere il prodotto finale, quale il suo valore intrinseco. Quel che conta, in un panorama televisivo dove la sperimentazione, mediamente, è affidata agli altri, ché guai a rischiare in prima persona, è lo slancio di Discovery. Il suo essere pioniere (e, di nuovo, poco importa di quali frontiere), l’avere il coraggio, la voglia, la capacità di fare, non solo di dire.
Discovery ha cominciato anni fa, con il capo chino. Allora, erano gli show di matrice statunitense, i programmi svuota-testa che la generalista snobbava. Matrimoni, per lo più, format pieni di lustrini e gonne bianche. Li si guardava stralunati, come a chiedersi quante televisioni potessero esistere. Real Time, il più noto fra i canali di Discovery, pareva un universo parallelo. C’era diffidenza e curiosità. Real Time era l’E Entertainment di chi non possedeva (né pagava) Sky, una Mtv di nuova generazione. Era rivoluzionario, a suo modo (un modo tutto televisivo, del cui valore intrinseco – di nuovo – non si vuole dire). E tale è rimasto.
Accanto a quei programmi esteri, finestre su mondi che i più ignoravano, è stata inaugurata una linea inedita, italiana. Nuovi show sono stati prodotti, originali, in senso letterale. Il Boss delle Cerimonie, Drag Race Italia, Obesity Center Caserta, La Quinceanera, Federico Fashion Style, Bake Off Italia, Abito da sposa cercasi, Matrimonio a prima vista Italia, Cortesie per gli ospiti. L’elenco potrebbe continuare, i format cambiare. Si potrebbe tentare una disamina della materia, gridare al trash e poi rifiutare questa visione dualistica del pensiero televisivo (bello-brutto), ricordare che Real Time non è Mediaset, non ha plasmato la società, contrapponendo al Maestro Manzi le veline. Si potrebbe dire che l’ha letta, però, la società, ne ha capito i bisogni (bassi, volgari, sia come sia). Si potrebbe prendere le parti di Discovery oppure cercare di demolirla: né l’una né l’altra opzione sposterebbero di una virgola il cuore del discorso. Il Gruppo ha saputo investire, dimostrando come non sia necessario avere le risorse della generalista o volti arcinoti cui affidare programmi, spesso mediocri. Di più. Ha dimostrato che fare qualcosa di nuovo è possibile. Ha saputo sperimentare. Rischiare. Incarnare e incanalare la retorica abusata che ad ogni presentazione dei palinsesti torna, prepotente. Ha saputo guardare e ascoltare, essere il punto di contatto fra la velocità dell’esistenza social, le sue mode, e la televisione tradizionale. E ci sarebbe da imparare, per tutti, pure per Netflix, che il proprio primo show italiano ha deciso di affidarlo ad Alessandro Cattelan. Bravo, sì, ma ormai onnipresente.