Dopo di lui il voto

La fine di un governo impossibile ormai da tenere unito, tra contorsioni, illusioni e manovre di chi ne ha fatto parte. Mario Draghi alza le mani. E ora, tra protagonisti e comprimari della crisi, l’Italia va alle urne in una situazione difficilissima.


«È caduto il governo?». «Sì ma niente di serio». Sarà anche irriverente citare il vintage «Tre uomini e una gamba» per mettere la parola fine al terremoto dell’estate italiana, ma è indispensabile; solo la commedia degli equivoci ci aiuta a prendere atto con rassegnazione che qui non manca l’amalgama come nel Catania di Angelo Massimino, ma mancano proprio i leader. In un Paese in cui la politica si è ridotta a tattica, affarismo ed «emergenze democratiche» un tanto al chilo, perfino una rockstar della finanza come Mario Draghi non poteva reggere e non ha retto al peso dell’individualismo e del dilettantismo. Doveva essere un re Sole, ci ha regalato la più nota delle sue citazioni: «Dopo di me il diluvio». O il voto.
Al culmine di una stagione drammatica (la pandemia, la guerra, la crisi energetica, la siccità, la carestia, mancano le cavallette dei Blues Brothers), anche il premier più titolato, introdotto nella high society planetaria, è stato travolto da una serie di errori individuali e collettivi che una classe politica strutturata, cresciuta in una scuola di partito di buon livello – perfino alle Frattocchie del Pci – non avrebbe mai commesso. Hanno sbagliato tutti in questa faccenda, qualcuno perché sprovveduto, qualcun altro perché si credeva volpe. A cominciare da lui.
Dragon Fall in spiaggia. Il Supermario caduto avrà tempo di ripensare a sbandate e uscite di pista nelle lunghe passeggiate sulla battigia di Lavinio, vicino ad Anzio, dove all’alba cammina svelto con il cane prima di rintanarsi lontano dalla calura e dai curiosi fra i muri spessi della casa dei nonni, in cui ancora risuona la sua voce da bambino. Rischia di passare alla storia per un controsenso hitchcockiano: è l’uomo che si è sfiduciato due volte. Aveva i numeri per continuare ma non ha saputo farlo, prigioniero dell’orgoglio degli infallibili. Lo ha dimostrato nell’ultimo discorso al Senato, pronunciato non per salvare il banco ma per farlo saltare, all’insegna del «se vi prostrate abbastanza rimango perché me lo chiedono gli italiani».

Neppure nel cda più eterogeneo si ottengono risultati prendendo a sberle gli azionisti di maggioranza. Pur di compiacere il potente Pds (partito di Sergio, nel senso di Mattarella) ha fatto scappare prima Giuseppe Conte e poi Matteo Salvini. È stato tradito dal tecnopopulismo dei competenti che guardano le curve della politica con diffidenza. «Consenso o dissenso, in parlamento prima o poi si arriva lì» sosteneva Bettino Craxi. Lì dove serve una parola, un accordo, uno sguardo per continuare a guidare il Paese. È l’arte del possibile, che si tramanda o si insegna ma non si può non conoscere. Al momento dei saluti Draghi ha detto: «Anche i banchieri centrali usano il cuore». A lui in qualche occasione è mancata (a sorpresa) la freddezza del giocatore di poker.
Draghi ha commesso altri due sbagli: dire che non avrebbe mai governato senza i Cinque stelle e vedere Enrico Letta platealmente prima del giorno del giudizio. Come a marcare una preferenza, una simpatia; numericamente quella sbagliata. Gli errori si pagano perche fanno scattare le trappole. Lui in un anno e mezzo ne aveva compiuti due, tutti nell’intento di voler semplificare concetti for dummies, come se fosse il titolista di un giornale e non il premier. «Non ti vaccini, ti ammali, muori» per imporre il Green pass, prima di sapere che le dosi non immunizzano. «Bisogna scegliere fra pace e condizionatore», una frase «ad minchiam» (copyright del compianto Franco Scoglio), come se gli italiani non fossero in grado di assimilare concetti complessi.
Il Conte dimezzato. L’avvocato del popolo ha sfilato la carta da sotto facendo cadere il già fragile castello senza valutarne le conseguenze. L’ora del dilettante lo perseguiterà sino a Ferragosto, quando il Pd orfano di alleati di peso sarà costretto a creare una narrazione lunare pur di riaccoglierlo con quel che resta dei pentastellati ortodossi per «battere le destre», rigorosamente al plurale per marcare il distratto disprezzo.

Nell’operazione Dragon Fall ha subìto una scissione sanguinosa dalla sera alla mattina, si è fatto sfilare da sotto il naso una cinquantina di parlamentari da Luigi Di Maio, non ha mai neppure tentato di fare gol in contropiede. Ma non si è mai neppure spostato dal suo arroccamento a dimostrazione che Beppe Grillo, dopo averlo definito «senza visione politica e capacità manageriali», gli aveva dato il via libera. Proprio l’Elevato, «garante del Dna del movimento», è destinato a tornare protagonista come ogni estate, quando in villa arrivano politici e intellettuali per entrare in sintonia con lui. Primo fra tutti Beppe Sala, il Vanity sindaco di Milano con l’aspirazione di correre alle elezioni da candidato premier del centrosinistra. Un 10 per cento non si rifiuta mai. Il mondo è curioso di conoscere con quali parole verranno giustificati nel campo largo gli apparentamenti fra contiani e dimaiani.
Salvi(ni) per un pelo. Beffato nella corsa del Quirinale (la rielezione di Mattarella è considerata dai leghisti una disfatta epocale), rimbalzato come mediatore da operetta in tempo di guerra, sconfitto per pasticci con i candidati alle amministrative, il Capitano era diventato il punching-ball preferito di Draghi. «Anche quando sono Conte o Letta a gettare la vernice rossa sulla cattedra le sberle dal maestro le prendiamo noi» sintetizzava da tempo un vecchio colonnello bossiano. L’impazzimento del Movimento 5 Stelle ha regalato a Salvini la mossa del cavallo e lui se l’è giocata, chiedendo un Draghi bis senza i grillini e senza i ministri più invisi alla Lega: Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. Il Partito di Sergio non avrebbe mai accettato, il colpo è riuscito. A quale prezzo per il Paese, lo sapremo in autunno.

Salvini ha già dato la linea elettorale: revisione dei protocolli pandemici per smettere di terrorizzare gli italiani, ritorno al rigore nei confronti degli sbarchi dei clandestini, maggior pragmatismo nei rapporti con l’Europa per non subìre le sanzioni imposte a Vladimir Putin, prudenza nella transizione energetica senza energia. Più la pace fiscale con la rottamazione di 50 milioni di cartelle esattoriali «che Pd e grillini ci hanno impedito di fare nel governo Draghi». La campagna sotto l’ombrellone è cominciata, tutti insieme appassionatamente anche se Giancarlo Giorgetti ha digerito male lo strappo. Il suo «poteva finire in maniera più dignitosa» dimostra che in fondo hanno sbagliato in tanti.
Napoleone Letta. «Domani sarà una bellissima giornata» aveva detto la sera prima dello showdown senza sapere che avrebbe fatto la stessa fine del Bonaparte a Waterloo. La sua mancanza di strategia e il suo amore sviscerato per la tattica questa volta lo hanno tradito. Interessato il giusto al destino di Draghi, negli ultimi mesi si è mosso per raggiungere due obiettivi: ricompattare i Cinque stelle in deflagrazione per cementare il campo largo e far venire una crisi di nervi alla Lega con Ddl Zan, Ius Scholae, Cannabis libera, in modo da costringere Salvini ad andarsene.

Non gli è riuscito niente, se non spaccare il partito fra ex renziani riformisti che non vogliono più saperne di Conte («Non può più essere un punto di riferimento per i progressisti», Andrea Marcucci) e dem della sinistra storica che anelano al grande abbraccio («È un alleato affidabile, non possiamo perderlo per strada», Francesco Boccia). E questo non è il passato ma il futuro: liste, collegi, mal di pancia dei «centrini». Se l’ostinazione lettiana vince e l’equivoco rimane in piedi, l’estate sarà ancora più calda. Sullo sfondo rimane la shitstorm abbattutasi su Marianna Madia che, scendendo candidamente dalla luna, ha scritto sui social: «È stata una crisi da folli, questo Movimento 5Stelle è incompatibile col Pd». Auguri.
Il Cavaliere eterno. Nei mesi scorsi aveva lasciato scorrazzare l’ala ministeriale di Forza Italia, quella socialdemocratica. Ma improvvisamente Silvio Berlusconi ha deciso di riprendere in mano il destino azzurro. Gran visir della politica, la crisi lo ha corroborato. Gli ha tolto qualche anno dalle spalle e qualche antico sassolino dalle scarpe. «Mentre decideva di staccare la spina ha pensato alla letterina firmata Draghi arrivata sulla sua scrivania nell’agosto 2011» spiffera un suo amico ricordando la tempesta perfetta dello Spread che mandò a casa il governo. Ma il Cavaliere è già oltre e non sembra curarsi delle uscite di Mariastella Gelmini (risuona ancora il «Prenditi uno Xanax» di Licia Ronzulli) e Renato Brunetta. L’obiettivo imminente è la federazione con la Lega «e gli altri partiti che si riconoscono nei valori liberali per costruire un grande partito conservatore in Italia».
La mossa ha anche lo scopo elettorale di rilanciare la sfida per la premiership nel centrodestra nei giorni in cui Giorgia Meloni, che ha osservato l’affondamento di Draghi dal loggione, ha cominciato a stilare con un pizzico di imprudenza l’elenco dei ministri. Preso atto che Matteo Renzi non ha toccato palla né in aula né in piazza; che il Partito di Sergio (Mattarella) alla fine ha fatto cadere il cavallo vincente; che Washington ha garantito «continuità per lavorare insieme su importanti priorità come il sostegno all’Ucraina», l’Italia esce dalla crisi senza Dragonball, senza leader né ironia. Quella che ha permesso a Boris Johnson di chiudere il discorso di addio ai Comuni con la frase: «Hasta la vista, baby». Come Schwarzenegger in Terminator.
Nessun melodramma, sono inglesi.

Leggi su panorama.it