martedì, 4 Febbraio 2025
È stata la mano di Dio – La recensione del film di Sorrentino da Venezia 78
Tutti i registi che inseguono un’ossessione prima o poi tornano a casa. Il cinema di Paolo Sorrentino è ricco di idiosincrasie e motivi ricorrenti, a dimostrazione di quanto il cineasta napoletano sia imprigionato nei meccanismi della sua mente brillante: era quindi inevitabile che anche lui, come molti altri colleghi, avesse bisogno di tornare nella terra natia per riflettere su sé stesso.
Se La grande bellezza era il suo La dolce vita, È stata la mano di Dio è il suo Amarcord. Il parallelo con Fellini, peraltro evocato apertamente nel film, è inevitabile: Sorrentino non è altrettanto etereo e lunare, ma anche lui usa il cinema come una seduta psicanalitica. Il protagonista del film è infatti un suo “doppio”, Fabietto Schisa (Filippo Scotti), adolescente che vive a Napoli negli anni Ottanta, e aspetta l’arrivo di Maradona come un messia. Attorno a lui ruota una famiglia scoppiettante, con due genitori che si amano alla follia (Toni Servillo e Teresa Saponangelo), un fratello che sogna di fare l’attore (Marlon Joubert) e una sorella che non esce mai dal bagno. Il resto del parentado è il tipico campionario sorrentiniano: personaggi grotteschi, bizzarri, capaci di imporsi nella memoria con una singola frase. Emblematico il disincanto dello zio, che promette di uccidere tutti se Maradona non approderà al Napoli: «Quando avete cominciato a essere così deludenti?» chiede alla famiglia, nauseato dal conformismo che lo circonda. E nauseante è pure la realtà, che secondo Fellini – presente in città per un casting – è «scadente». Ma almeno il cinema ti distrae.
Rispetto allo zio (o, per dire, a un Jep Gambardella), il tratto distintivo di Fabietto è proprio la giovinezza: arriverà anche lui a provare disgusto per la realtà, ma prima deve sperimentarla sulla sua pelle. Fabietto non ha una ragazza, vorrebbe tanto perdere la verginità, e sente di non aver mai vissuto veramente. È stata la mano di Dio è il suo racconto formativo, e segna il passaggio alla vita adulta attraverso le classiche tappe di questo percorso: la perdita, l’educazione sentimentale, il rapporto con un mentore, la scoperta delle proprie aspirazioni. L’andamento è episodico, fatto di incontri e (dis)avventure che si susseguono fino all’epilogo, quando Sorrentino trova l’anello di congiunzione tra Fabietto e il suo presente. Come al solito, il regista è bravo a creare immagini iconiche (memorabili la sequenza iniziale e il prologo), ma anche situazioni e caratteri paradossali. Si ride, spesso di gusto, per i dialoghi sentenziosi e le battute folgoranti, anche grazie alle ottime caratterizzazioni dei genitori: indimenticabile soprattutto la giocosità della madre, così lontana dalla retorica materna che ci propina la cultura conservatrice. E lontana dai cliché è anche Napoli, città di abbacinante meraviglia, qui ritratta nei suoi scorci meno risaputi.
Il limite, se mai, è nell’artificiosità che questo approccio porta con sé. È stata la mano di Dio, come tutti i film di Sorrentino, è fin troppo “scritto”, fino a diventare didascalico: capita spesso che i dialoghi vengano usati per spiegare una svolta narrativa, o un particolare momento di passaggio. Si avverte così una certa rigidità, forse endemica al cinema del regista napoletano: pur avendo un indubbio talento visivo, gran parte della sua poetica passa dal piano verbale. Resta comunque il suo film migliore dai tempi de Il divo, quello in cui le sue principali fissazioni (la senilità, il disinganno, la religione come folclore) si esprimono a livello più intimo. Uno scambio confidenziale tra l’artista e il suo pubblico, forse l’unico modo per esorcizzare il passato.