Errori militari e culturali dell’occidente alla base della rapida caduta di Kabul

La caduta di Kabul è stata una disfatta annunciata da tutti gli analisti militari del mondo tranne da quelli del presidente Joe Biden, che hanno continuato a sostenere la tesi per la quale la resa della capitale sarebbe avvenuta in diciotto mesi. Impietose le parole del generale David Petraeus, capo militare dal 2010 fino alla sua entrata nella Cia e oggi in pensione, che ha tuonato: “Li abbiamo preparati per il fallimento.”

Niente supporto aereo ravvicinato, niente più droni in volo, niente più rinforzi e la consapevolezza di non sopravvivere a una eventuale cattura. E a poco ha valso che il fuggito presidente Ashraf Ghani l’undici luglio abbia esautorato il capo dell’esercito, il generale Wali Mohammad Ahmadzai, in carica da due mesi, sostituendolo con il generale Haibatullah Alizai, un comandante delle operazioni speciali le cui truppe sono state praticamente le uniche che hanno contrastato i talebani nelle ultime settimane. Gli altri militari non avevano più alcuna volontà di lottare per il governo in carica, consapevoli che i primi ad essere eliminati dai talebani sarebbero stati proprio gli appartenenti alle forze speciali, sia perché essendo soldati ben addestrati rappresentavano una minaccia, sia perché essendo volontari sarebbero stati considerati difficili da gestire. Da qui la decisione di eliminarli anche dopo la loro resa.

Ma per comprendere come sia stato possibile che sul piano militare le milizie talebane abbiano potuto conquistare la nazione in pochi mesi è necessario ricordare che tra le operazioni militari avvenute in Afghanistan quella americana Enduring Freedom, cominciata il 7 ottobre 2001, era l’unica con un obiettivo preciso e realista: annientare i talebani che sostenevano i terroristi, distruggere i loro campi di addestramento ed eliminare i capi. Il tutto cercando di minimizzare un fattore determinante: i talebani sono afghani a casa loro, mentre gli occidentali, seppure armati delle migliori intenzioni, sono stranieri con concetti democratici inapplicabili in quei luoghi. Tuttavia la comunità internazionale puntava a costruire un nazione nuova – altro errore culturale – in un luogo ancora intriso di dinamiche etniche nel quale la ricerca del potere vede da sempre conflitti tra piccoli e grandi gruppi ancora partecipati da combattenti di al-Quaeda. Lo sapevano gli inglesi, che occuparono i territori nel diciannovesimo secolo, e i russi che l’occuparono tra il 1979 e il 1989. Ma cedendo alle volontà internazionali, alla fine del 2001 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizzò la missione militare Isaf (International Security Assistance Force to Afghanistan), che però si rivelò disorganizzata e per nulla coordinata con quella già in corso. Il risultato fu che per organizzare e piazzare le truppe internazionali e far prendere il controllo di tutte le province afghane ai soldati regolari ci vollero più di cinque anni, un tempo nel quale i talebani avevano potuto spostarsi in Pakistan e organizzarsi, pur essendo tallonati dagli Usa che cercavano Osama Bin Laden (il quale sarà ucciso ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011). Da quel momento buona parte delle popolazioni afghane dei territori periferici preferì mantenere una convivenza con i talebani, mentre la Nato con la Resolute Support Mission (Rsm) cominciata il primo gennaio 2015, tentò di proteggere quanto costruito fino a quel momento. Ma i talebani già da quell’anno facevano affari con i cinesi vendendo lo sfruttamento dei tanti metalli rari che il Paese possiede, specialmente nella provincia di Logar, arricchendosi. Recentemente, nella fretta di completare il ritiro voluto da Biden entro l’undici settembre è stato compiuto un altro errore fatale: entro la festa del 4 luglio il Pentagono aveva riconsegnato agli afghani la base militare di Bagram, l’unica dalla quale mezzi aerei ed elicotteri potevano colpire efficacemente i talebani, pur sapendo che gli afghani non sarebbero stati in grado di mantenere efficiente l’aviazione che gli Usa hanno contribuito a costruire. Ora serve capire che cosa farà Joe Biden con i bombardieri B-52 che ha mandato in Qatar. Perché oltre a poter radere al suolo intere città, oppure distruggere i campi di oppiacei che costituiscono la maggiore fonte di reddito del neonato Califfato islamico, la mossa pare l’ennesimo pessimo suggerimento dei suoi consiglieri, gli stessi che ammettono di essere stati sorpresi dal rapido collasso delle forze regolari. Eppure i motivi per i quali i soldati afghani si sarebbero sovente arresi senza combattere erano prevedibili se non addirittura noti: corruzione dilagante, stipendi non pagati per mesi, rifornimenti carenti e armi insufficienti. E poi il fatto di costituire un esercito che non credeva in sé stesso, inserito in una nazione che ha ancora forti connotazioni tribali e dove ha più credibilità un vecchio mujaheddin di un ufficiale appena nominato.

All’indomani dell’elezione di Joe Biden, il Dipartimento della Difesa Usa aveva cercato si convincere la Casa Bianca a rimandare l’uscita dei militari dal Paese a causa del fatto che durante l’amministrazione Trump i talebani si erano appunto rafforzati e avevano potuto stringere nuovi accordi con i miliziani di al-Qaeda. E questi non si fermeranno neppure oggi, dopo il rovesciamento del governo Ghani avvenuto a ferragosto e ora gli stessi analisti di Biden prevedono che l’Afghanistan sprofonderà in una guerra civile che partirà dal nordovest del territorio, dove le strutture statali sono state le prime a essere distrutte dall’avanzata dei talebani. Qui le milizie tribali, quindi fedeli ai mujaheddin, potrebbero unirsi ai reduci dell’esercito regolare e approfittando dell’appoggio militare che gli Usa continueranno a fornire loro, attaccheranno – e si difenderanno – dai talebani.

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