domenica, 23 Febbraio 2025
Everything Everywhere All at Once, la recensione
Evelyn Quan Wang, immigrata cinese che vive da anni negli Stati Uniti, siede con il marito Waymond e l’anziano padre Gong Gong di fronte a un’arcigna ispettrice dell’agenzia tributaria, Deirdre Beaubeirdre, che ha disposto un accertamento fiscale sulla sua lavanderia. Il grande ufficio che li circonda è una selva di cubicoli grigi e chiassosi, pieni di scartoffie, impiegati, telefoni e schermi di computer. Anche la scrivania di Deirdre è ricoperta di scartoffie: sono le ricevute che Evelyn vorrebbe registrare come spese aziendali, ma l’ispettrice non ha alcuna intenzione di dedurre una macchina per il karaoke dalle tasse, e minaccia di multare i Wang per «grave negligenza». Avvilita fin quasi alle lacrime, Evelyn non sa nemmeno cosa significhi quell’espressione (in originale «gross negligence»), e concentra tutta il suo sconforto in un mormorio rassegnato: «Cercate sempre di confonderci con questi paroloni…».
Ecco, è in questa scena che Everything Everywhere All at Once tocca il suo livello più concreto di realtà: il contesto è talmente ordinario da risultare desolante, e la reazione di Evelyn – una straordinaria Michelle Yeoh – dà corpo all’esperienza di essere stranieri in terra straniera. D’altra parte, se vuoi immaginare infinite realtà alternative, devi pur sempre cominciare dalla nostra. Il film di Dan Kwan e Daniel Scheinert (altrimenti noti come Daniels) trova nella teoria del multiverso un’opportunità per unire “alto” e “basso”, impegno ed evasione, dramma e commedia, artigianato e digitale, verosimiglianza e fantasia: insomma, un cinema prismatico e imprevedibile, che supera i confini tra generi e registri predeterminati. La contaminazione è il futuro dell’arte popolare, questo ormai l’abbiamo capito, ed Everything Everywhere All at Once si trova proprio al centro del processo evolutivo, anche per la sua capacità di mettere insieme ciò che è stato e ciò che verrà.
Forse non è un caso che il punto di partenza sia una circostanza così triviale come la dichiarazione dei redditi. Evelyn vive da anni negli Stati Uniti con Waymond, da cui ha avuto la figlia Joy, e cerca di imporre rigore e pragmatismo laddove il marito porta entusiasmo e dolcezza. Nel mezzo dei loro problemi fiscali, però, Alfa-Waymond – una versione alternativa di suo marito – la prende da parte e le comunica che il destino del multiverso è nelle sue mani: un’inarrestabile tiranna con poteri divini, Jobu Tupaki, ne sta infatti minacciando l’esistenza, e soltanto Evelyn può fermarla. La nostra recalcitrante eroina impara quindi a saltare da una realtà parallela all’altra, attingendo alle capacità dei suoi alter ego per combattere l’avversaria. Ma la guerra per il multiverso riflette una battaglia più intima e personale: Evelyn deve lottare anche per tenere insieme la sua famiglia, ed evitare che Joy si allontani definitivamente da lei.
I rapporti tra madri e figlie sono al centro di un discorso che coinvolge moltə registə di origine asiatica (basti pensare ai recentissimi Turning Red e Umma), ma qui la riflessione si espande ben oltre le mura familiari: è un’ulteriore prova di come i Daniels sappiano unire l’incredibilmente grande e l’incredibilmente piccolo, l’universale e l’individuale, senza peraltro sacrificare nulla di entrambi. Si parte dalla banalità quotidiana per giungere all’epica cosmica, e poi ritorno. L’improvviso interesse del cinema per gli universi paralleli – anticipato negli anni Duemila da piccoli gioielli come Coherence o da grezzi action come The One – cavalca l’onda dei cinecomic Marvel e DC, ma solo Everything Everywhere All at Once tocca il punto più delicato della questione: il multiverso implica un numero infinito di vite che ognuno di noi avrebbe potuto vivere, e quindi un numero infinito di rimpianti. Evelyn ha modo di scoprire cosa sarebbe successo se non avesse seguito Waymond negli Stati Uniti, o altre direzioni che la sua vita avrebbe potuto prendere, e il film mette in comunicazione tutte queste potenziali esistenze con il turbinoso montaggio di Paul Rogers. È anche così che il cinema dimostra il suo potere: ha la capacità di annullare le distanze in un millisecondo, di abbattere le barriere tra gli universi (reali o potenziali) e riunire “tutto, ovunque, contemporaneamente”, per citare il titolo.
Ciò che ne deriva è un film inevitabilmente caotico, che affastella trovate bizzarre, contorte, spesso stranianti. Per goderlo appieno bisogna accettarne le regole surreali, anche perché i Daniels creano un mondo fortemente codificato che segue norme ben precise. È un caos molto controllato, a volte persino troppo, nel senso che i due registi non si abbandonano all’improvvisazione o al flusso di coscienza: la sceneggiatura è blindatissima. Questo però non impedisce loro di imbastire un’opera ricchissima e postmoderna, piena di omaggi al passato di Honk Kong, ai wuxia, ai film di Jackie Chan (gli oggetti comuni usati come armi improprie nelle scene d’azione) e a quelli di Wong Kar-wai, perché la fantascienza e la commedia nonsense lasciano talvolta spazio al melodramma. Everything Everywhere All at Once è un film che parla ai nostri tempi perché replica il caos della vita contemporanea, la sua accumulazione inesausta di stimoli, ovvero la possibilità di avere “tutto” e “allo stesso tempo” rimanendo sempre connessi. La concomitanza dei generi e dei toni è l’effetto più immediato di tale status quo.
Eppure, la sovrastimolazione rischia paradossalmente di indurre apatia, uno dei grandi mali dell’Occidente contemporaneo. Spesso glorificata dai meme e dall’umorismo deadpan, l’apatia rappresenta qui la vera minaccia, il reale antagonista da cui Evelyn deve salvare la figlia (e l’intero multiverso). Waymond e Jobu Tupaki incarnano i due versanti opposti dello spettro: positivo e negativo, tenerezza e distruzione, ottimismo e nichilismo. Evelyn sta nel mezzo, e le sorti di tutto ciò che esiste saranno determinate da quale “fazione” sceglierà. Scalda il cuore ritrovare Ke Huy Quan in un ruolo così delicato e puro, un’ode al potere della gentilezza: Everything Everywhere All at Once è un riscatto anche per lui, marginalizzato per decenni da quello stesso razzismo che Evelyn e Waymond affrontano ogni giorno. Come spesso accade nelle grandi opere, il confine tra arte e vita si assottiglia fin quasi a sparire. Vale anche per Michelle Yeoh, che finalmente trova un ruolo alla sua altezza nel cinema occidentale, mettendo corpo e anima in una performance di enorme impegno fisico, mentale ed emotivo.
Era ora che anche il multiverso, come gli altri sottogeneri della fantascienza, avesse il suo capolavoro.
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