lunedì, 24 Febbraio 2025
Fa ridere, ma fa anche riflettere: la recensione di Don’t Look Up
Se La grande scommessa e Vice guardavano con sarcasmo al passato recente, Don’t Look Up ha gli occhi puntati sui giorni nostri, e magari anche sul futuro. Adam McKay si è ritrovato fra le mani il film giusto al momento giusto, impossibile negarlo: la sua sceneggiatura, scritta ben prima del Covid-19, è ispirata all’indifferenza politico-mediatica davanti al surriscaldamento globale, ma si rivela essere anche un’involontaria metafora della pandemia.
I riferimenti al surriscaldamento globale sono palesi quando la dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) e il professor Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) scoprono che una cometa è in rotta di collisione con la Terra, e i loro avvertimenti restano inascoltati. La Presidente Janie Orlean (Meryl Streep) si rifiuta di prenderli sul serio finché i dati non saranno confermati da astronomi più prestigiosi, mentre la stampa li tratta come impostori o semplici curiosità. Gli esperti del governo sottoscrivono la minaccia, eppure la situazione non migliora: l’influenza di un ricchissimo guru della tecnologia, Peter Isherwell (Mark Rylance), potrebbe mettere a rischio la missione per distruggere la cometa, e l’apocalisse si trasforma in un conflitto tra fazioni.
È proprio questa una delle intuizioni più argute di Don’t Look Up: viviamo in un mondo che non è in grado di affrontare con serietà nemmeno i pericoli incombenti, e trasforma ogni problema in un futile dualismo. Il confronto diviene sempre uno scontro, fatto di slogan contrapposti e campagne marketing. In effetti, McKay mette in scena il nostro presente con grande lucidità, consapevole di quanto “il folle mondo in cui viviamo” – per citare le sue parole – abbia ormai interiorizzato la società dello spettacolo: se l’intrattenimento è l’unico linguaggio condiviso dalle persone (anzi, dal pubblico), tutto diventa show business, e per stimolare consapevolezza sulla fine dei giorni serve un concerto di Ariana Grande.
I temi sono numerosi, con altrettanti obiettivi da dissacrare. La satira di Don’t Look Up – un po’ come faceva Mars Attacks! negli anni Novanta – usa la fantascienza per deridere le miserie dei nostri tempi, contrapponendo la fatica al privilegio, gli oppressi agli oppressori. La differenza è che nel 1996 non eravamo disillusi come oggi, e questo si riflette nel finale. Di fatto, McKay sovverte la vecchia retorica dei film catastrofici, smascherando la dabbenaggine delle istituzioni e la farsa populista degli “eroi”. In tal modo, rivela anche la vera natura dei complottisti: dietro ogni teoria di complotto c’è infatti l’illusione che i governi abbiano il pieno controllo di tutto, abbiano previsto ogni evento e possano manipolare l’andamento della Storia a proprio gusto, quando in realtà navigano a vista e sono sballottati dai venti del mercato e del consenso popolare. Il film non potrebbe essere più “sul pezzo” di così.
Certo, alcune sfaccettature della satira possono risultare un po’ datate (come la figura “jobsiana” di Isherwell), ma McKay trova sempre un modo per spiazzarci, riproponendo quel gioco tra realtà e finzione che già caratterizzava La grande scommessa e Vice. I fulminei inserti documentaristici – scene di animali e persone da ogni angolo del globo – non si limitano a rappresentare la contemporaneità degli eventi su un pianeta ricco di vita, ma riproducono il bombardamento sensoriale a cui siamo sottoposti ogni giorno. Così, il magma caotico di Don’t Look Up diventa una sintesi della nostra esperienza quotidiana, lo specchio di come guardiamo il mondo e di come il mondo guarda noi. Il fatto che McKay ci sia riuscito anche con una storia di finzione – non vera, ma verosimile – è un’ulteriore prova del suo talento.