Far East Film Festival 2024 – Speciale

Il racconto della ventiseiesima edizione del Far East Film Festival che si è svolta a Udine dal 24 aprile al 2 maggio. Conferme, sorprese, delusioni del ricco e variegato concorso che ha visto trionfare il cinema giapponese   Sono passati alcuni giorni dalla conclusione della 26esima edizione del Far East Film Festival. Ci vuole sempre un po’ di tempo per riprendersi dall’ubriacatura di visioni, incontri, chiacchierate a tema con amici che purtroppo spesso si riescono a vedere soltanto in queste occasioni particolari. I festival sono come una bolla in cui non c’è spazio per altro, sono un mondo a parte in cui è dolce perdersi. Tanto più a Udine perché al Far East vogliamo molto bene, e non solo come amanti del cinema asiatico. È un festival dall’atmosfera unica, come racconta Davide Parpinel nel suo pezzo 24 ore al FEFF al quale rimandiamo per comprendere meglio i motivi che rendono così particolare la manifestazione guidata da Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche. Noi ci siamo immersi in questa edizione quasi completamente, riuscendo a vedere un buon film. Nei limiti delle possibilità umane e della resistenza personale che non è più quella di qualche anno fa, quando si cercava di completare il rullo giornaliero di 6-7 proiezioni al Teatro Nuovo, dalla mattina alla notte, senza stop in pratica se non i pochi minuti di tempo da un film all’altro e le due pause leggermente più lunghe concesse all’ora di pranzo e di sera. Del ricco concorso, una cinquantina di film, ne abbiamo visto quindi circa la metà. Scegliendo a naso cosa guardare e cosa saltare, dopo magari aver letto qualcosina sul programma riportato nel curioso formato da quotidiano cartaceo messo a disposizione per accreditati e pubblico. Bisogna salire sulla giostra e sperare nel giro fortunato, scommettendo nell’alternanza dei generi, davvero tutti, che il festival abbraccia. Il format è quello collaudato, un’ampia finestra sull’Estremo Oriente con fari puntati sul cinema nella sua accezione popolare senza rinunciare a qualche stimolante deviazione dal tracciato principale. E con la ricerca di nuovi registi e autori che in questa edizione ha regalato sicuramente buone sorprese, considerando che alcune delle opere prime si sono rivelate tra le cose più interessanti presentate a Udine. Ma prima di fare una panoramica completa sui lungometraggi visti, due parole sugli ospiti che in un festival sono importanti quanto una buona selezione di film. Il colpo grosso è stato ovviamente portare Zhang Yimou che nobilita ulteriormente la lista di grandi nomi dei premiati alla carriera nel corso degli anni. Sarebbe forse servita qualche star in più, considerando anche il fatto che il maestro cinese è stato protagonista soltanto verso la fine del festival. Magari un paio di interpreti di un certo appeal, nei giorni precedenti, avrebbero catalizzato l’attenzione e fatto brillare ancora di più questa edizione. Giappone. Il palmares parla chiaro: è stato un trionfo giapponese. Con Takano Tofu film più apprezzato dal pubblico, giudice supremo al FEFF. Gelso d’oro al quale va aggiunto il premio dato dalla community di Mymovies che ha potuto vedere una selezione di film online e ha scelto come gli spettatori del Teatro Nuovo Giovanni da Udine lo stesso lungometraggio diretto da Mitsuhiro Mihara. Racconto della tradizione artigianale del tofu, di sorrisi e commozione, con al centro un rapporto padre-figlia, interpretati da Tatsuya Fuji e Kumiko Aso, che immediatamente fa pensare a Ozu (senza fare paragoni impropri con i suoi capolavori). Qualcosa dell’immenso regista che amava definirsi come un semplice venditore di tofu, per restare in tema, si respira anche in Confetti perché come in Erbe fluttuanti del venerabile Maestro la storia segue le vicende di una di una compagnia di teatro popolare itinerante, in questo caso con gli occhi puntati su un giovanissimo attore che è figlio del capocomico. Un garbato esordio quello di Naoya Fujita che si è guadagnato dopo il caloroso applauso in sala che ha sciolto in lacrime il giovane autore, momento sinceramente emozionante, anche il Gelso d’argento per il secondo posto nelle preferenze del pubblico. Della selezione nipponica abbiamo visto altri cinque film, tra questi il titolo che si potrebbe definire il più audace dell’intero programma. Muto in bianco e nero, Motion Picture: Choke di Gen Nagao porta lo spettatore in un futuro distopico dove non esiste una società civile e l’uomo non comunica più con la parola. Contesto apocalittico-primitivo utile per stimolare riflessioni sulla natura umana, ma film più interessante che riuscito. Discorso che in parte si può fare anche per Voice dove si esplorano con tre storie dolorose temi come senso di colpa e redenzione. Da una regista come Yukiko Mishima, già abbastanza conosciuta anche in Occidente, ci aspettavamo qualcosa di più. Il dolore di una giovane coppia di genitori che deve fare i conti con la scomparsa della figlia, e la morbosità di media e social media, muove i fili della narrazione di Missing di Keisuke Yoshida. Discreto dramma, con ottima protagonista femminile Satomi Ishihara. Più articolato nella struttura narrativa, ma nel complesso leggermente meno convincente, (Ab)normal Desire di Yoshiyuki Kishi che si sofferma sulla solitudine di personaggi dalle pulsioni erotiche non convenzionali, in particolare l’eccitazione dall’acqua che zampilla. Per ultimo ricordiamo il film più evitabile per i nostri gusti: The Yin Yang Master 0 di Shimako Sato, fiacco fantasy ambientato nel periodo Heian. Hong Kong e Cina. Lo diciamo subito, il film che abbiamo apprezzato di più dell’intero festival è Fly Me to the Moon di Sasha Chuk, anche interprete oltre che regista e sceneggiatrice di un’opera prima che rappresenta bene il nuovo cinema hongkonghese. La storia di una famiglia di immigrati cinesi a Hong Kong sviluppata in tre atti e un arco temporale di vent’anni, a cominciare dal 1997 che non è mai una data qualsiasi quando si parla di quel territorio perché segna il passaggio da protettorato britannico a regione amministrativa speciale cinese. Ci sarebbe piaciuto vederlo sul podio dove invece è salito, sul terzo gradino simboleggiato dal Gelso di cristallo, un altro esordio: Time Still Turns the Pages di Nick Cheuk che tratta un tema delicato come la depressione e il suicidio tra gli studenti, tra criticità del sistema educativo e pressioni dei genitori. Buon film anche se si spinge ai limiti del ricattatorio. Senza infamia e senza lode Rob N Roll di Albert Mak che si muove sul terreno della commedia d’azione, tra humour e violenza, mentre offre qualcosa in più Dust to Dust di Jonathan Li, discreto crime-drama su un poliziotto che in pensione torna a occuparsi di un caso irrisolto di rapina a distanza di anni. Debolissimo invece The Lyricist Wannabe di Norris Wong, sul sogno di una ragazza di sfondare nel campo della musica come paroliera. Da Hong Kong alla Cina, con un maestro dell’action qual è Herman Yau che come altri veterani del cinema dell’ex colonia inglese lavora anche per produzioni continentali avendo così a disposizione budget maggiori. Presente con ben tre film, ne abbiamo visto due dove certo non ci siamo annoiati tra la caccia a una banda di rapinatori lungo la ferrovia transiberiana, Moscow Mission, e quella a dei narcotrafficanti nella Cina sud-occidentale, Raid on the Lethal Zone, condita con elementi da disaster movie. Regista cinese, Ning Hao, ma protagonista hongkonghese, propone The Movie Emperor con Andy Lau nei panni di un celebre attoreche accetta di interpretare un povero allevatore di maiali in un film indipendente pensando così di vincere dei premi ai festival. Metacinematografico, satirico, divertente, triste. Ci è piaciuto molto, in un’ideale classifica del meglio del festival si posiziona subito dietro il nostro preferito già indicato all’inizio di questo capitolo. Corea del Sud e Taiwan. Il cinema sudcoreano era il più rappresentato nel concorso con ben undici film. Ne abbiamo visti soltanto quattro, ma pescando si può dire abbastanza bene. In particolare grazie all’intuizione di entrare in sala per Mimang, tremando dopo aver sentito il lancio di Sabrina Baracetti come film più romantico del festival. L’esordio di Kim Tae-yang è invece molto interessante e rigoroso dal punto di vista del linguaggio cinematografico, premiato probabilmente per questo con il Gelso bianco dai giurati della sezione opere prime (Anthony Chen, Edouard Waintrop, Kaoru Matsuzaki). La struttura narrativa, con lunghe sequenze costruite sui dialoghi tra i personaggi mentre camminano per le strade di Seul, fa pensare a Hong Sang-soo anche se manca la brillantezza e la lucidità della sua scrittura. Non poteva poi mancare il blockbuster storico, uno di quei film a grande budget spesso presenti nel programma del festival e utili anche per stimolare il pubblico a conoscere il passato della Corea di cui normalmente si sa poco. 12.12: The Day di Kim Sung-soo, incentrato sul colpo di Stato del 1979 che ha poi segnato la vita del Paese per un decennio, è un prodotto di buonissima fattura e con protagonisti carismatici: Jung Woo-sung, presente a Udine, e soprattutto Hwang Jung-min, nel ruolo del diabolico generale Chun alla guida del golpe. Altri due popolari attori, Ha Jung-woo e Ju Ji-hoon, sono gli interpreti principali di Ransomed di Kim Seong-hun che si caratterizza come un buddy movie ricco di azione, dalla curiosa ambientazione in Libano nella seconda metà degli anni Ottanta (si basa su fatti realmente accaduti), capace di svolgere sufficientemente bene il suo compito di intrattenimento seguendo dinamiche collaudate. Più ambizioso A Normal Family di Hur Jin-ho sul dilemma morale affrontato dai genitori di due adolescenti colpevoli di un reato. Il soggetto interessante, adattamento del romanzo La cena di Herman Koch già trasposto al cinema anche in Italia da Ivano De Matteo, ma lo svolgimento un po’ meno. Quattro, in questo caso tutti quelli presenti nel programma, anche i film taiwanesi che abbiamo visto. Il migliore un’altra opera prima, Trouble Girl di Chin Chia-hua incentrato su una ragazzina affetta da deficit di attenzione e iperattività. Tema scivoloso, ma rappresentato in modo convincente grazie soprattutto a un ritratto non convenzionale della madre in difficoltà nel gestire il disturbo della figlia. Discreto racconto di formazione, con incontro tra bambino innocente e vecchio cinico, Old Fox di Hsiao Ya-chuan si sviluppa nella Taiwan di fine anni Ottanta. Mentre uno sguardo contemporaneo sulla capitale dell’isola, attraverso una serie di cortometraggi di autori diversi, vuole offrire Tales of Taipei. Come sempre per film antologici di questo tipo accanto ad alcuni interessanti episodi se ne trovano altri che non lasciano il segno. Coproduzione con il Giappone, con tanto di regista nipponico, 18×2 Beyond Youthful Days di Michihito Fuji disperde negli eccessi del romantic drama il potenziale di un film che nella prima parte aveva mostrato un piacevole equilibrio tra leggerezza e nostalgia. Aggiungiamo in questo blocco anche un lungometraggio filippino, unico titolo del cinema del sud-est asiatico che non premeditatamente ma abbiamo finito per snobbare. Rookie di Samantha Lee, un esile racconto tra allenamenti e partite di pallavolo, con scene di gioco imbarazzanti, e l’amore che sboccia tra due compagne di squadra. Davvero bruttino, abbiamo scosso la testa più volte durante la visione pentendoci di essere entrati in sala a vederlo. Retrospettive. Ogni anno partiamo con l’idea di dedicarci un po’ di più allo sguardo sulla storia del cinema che il FEFF offre con omaggi e retrospettive. Perché la voglia di scoprire qualche perla del passato non conosciuta c’è sempre, così come il desiderio di poter apprezzare su grande schermo in versione restaurata film amati in visioni casalinghe. Ogni anno però la curiosità per la produzione recente, i lungometraggi del concorso, prende il sopravvento e le tappe al Visionario che ospita le proiezioni di classici sono ridotte al minimo. Una di queste ci ha portato a vedere Beautiful Duckling di Lee Hsing, film taiwanese del 1964 che esalta la vita rurale e il valore degli affetti familiari concentrandosi in particolare sul rapporto un tra padre, allevatore di anatre, e la figlia adottiva. Qualche ingenuità di troppo e tante lacrime non intaccano il piacere della visione che per certi aspetti fa ricordare il primissimo Hou Hsiao-hsien che agli inizi è stato proprio assistente di Lee. Con la selezione online, non è certo come le proiezioni in sala ma meglio di niente, abbiamo potuto invece ammirare i sette film coreani degli anni Cinquanta proposti per festeggiare il mezzo secolo di attività del Korean Film Archive. Una bella scoperta che ci ha spinto a scrivere un piccolo approfondimento al quale rimandiamo i lettori. Un focus lo abbiamo dedicato anche a Shinji Somai, tra i registi giapponesi più importanti degli anni Ottanta e Novanta eppure non molto conosciuto in Occidente, che il festival ha voluto omaggiare con i suoi due capolavori: Typhoon Club e Moving. Questi i film che hanno accompagnato il nostro viaggio a Udine. Appuntamento al prossimo anno!  

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