lunedì, 27 Gennaio 2025
Fear Street – Parte 1: 1994 | La recensione del primo capitolo della trilogia
Se l’incipit di Fear Street – Parte 1: 1994 vi sembra familiare, è molto probabile che abbiate passato l’adolescenza davanti ai meta-horror degli anni Novanta. Nella seconda metà del decennio, con l’exploit dell’etichetta Dimension, il modello dominante dell’horror commerciale erano proprio i discepoli di Scream: film citazionisti e metanarrativi, venati d’ironia postmoderna, che giocavano con le regole degli slasher e con la cultura dei protagonisti. Per la prima volta, infatti, le prede dell’assassino di turno erano consapevoli della storia del cinema horror, e ne discutevano apertamente tra una carneficina e l’altra.
Un filone ben poco ispirato, a parte il cult di Wes Craven e pochissime altre eccezioni, ma dotato di una personalità riconoscibile, in grado di stringere un legame con il pubblico grazie alla condivisione dello stesso immaginario. Ebbene, il film di Leigh Janiak compie un’operazione simile, ma l’omonima collana di R.L. Stine (l’autore di Piccoli brividi) le permette di rileggere quel sottogenere alla luce della contemporaneità.
La trappola funziona subito: il prologo con Maya Hawke, la fotografia dai toni fluorescenti e il contesto adolescenziale bastano a sedurre lo spettatore nostalgico, orfano dei vecchi teen horror. Anche l’ambientazione intriga, poiché la trilogia di Fear Street si svolge tra le città di Shadyside e Sunnyvale, un binomio dagli opposti destini. Come s’intuisce dal nome, Shadyside è la sorella povera, funestata da massacri inspiegabili che si reiterano di generazione in generazione; mentre Sunnyvale è ricca, pacifica e felice. A Shadyside vivono Deena (Kiana Madeira), suo fratello Josh (Benjamin Flores Jr.), Kate (Julia Rehwald) e Simon (Fred Hechinger), quattro teen-ager perseguitati da una sanguinosa minaccia sovrannaturale. Al gruppo si aggiunge Sam (Olivia Scott Welch), che si è trasferita a Sunnyvale da qualche mese: insieme, dovranno indagare sull’origine degli omicidi e cercare di salvarsi la pelle.
Le atmosfere dei film Dimension sono percepibili fin dall’inizio, anche perché Janiak cita palesemente Scream nella prima sequenza. Fear Street – Parte 1: 1994 non diventa però un “irritante bombardamento di citazioni postmoderno”, per dirla come Mark Fisher in Spettri della mia vita. Al contrario di ciò che gran parte dell’industria culturale sta facendo negli anni Duemila, Janiak ha quantomeno il merito di ricombinare i cliché, lavorando sulle aspettative del pubblico per spiazzarlo all’improvviso. La regista di Honeymoon, in effetti, rilegge il meta-horror degli anni Novanta con gli occhi del presente, lasciando emergere tutto ciò che all’epoca restava irrisolto o solo implicito: le pulsioni sessuali, la fluidità dei generi, il lato queer, ma anche una varietà etnica che non si limita al tokenism di facciata (non a caso, Deena e Josh non sono bianchi). Il cinismo è ancora più marcato, e lo stesso vale per gli elementi splatter, che sono meno timidi rispetto alla media di quel filone.
A guadagnarne è l’intrattenimento: se la prima metà è più intrigante perché il mistero regge ancora, la seconda diverte per i suoi compiaciuti parossismi, pur smarrendo qualcosa in termini di fascino. Certo, la scrittura non è sempre impeccabile. Alcune forzature narrative (come l’eccessiva latitanza degli adulti) sfidano la sospensione d’incredulità, mentre la caratterizzazione di Deena e Sam – un po’ debole – non regge il confronto con i personaggi di contorno: a rubare la scena sono Kate e soprattutto Simon. Il film mantiene però la capacità di sorprendere, facendo scelte non scontate nel montaggio, nella gestione della suspense e nelle sorti dei nostri eroi.
Dà una mano, in tal senso, anche la peculiarità stessa del progetto. Al contrario delle saghe horror del passato, la serialità di Fear Street è stata accuratamente programmata, e rappresenta un caso forse unico nella storia del cinema mainstream. Tre film separati, con tre epoche diverse e altrettanti sottogeneri dell’horror, ma che formano una grande macrotrama: il linguaggio della serialità televisiva incontra quello del cinema, e il risultato è un prodotto ibrido, che non manca di originalità nonostante operi una rimediazione del passato. Sembra naturale il suo approdo su Netflix, piattaforma che ha rilanciato l’horror adolescenziale con Stranger Things. Il pubblico di riferimento è lo stesso, e anche il tipo di operazione non è molto diversa: furba, nostalgica, ma non eccessivamente prona nei confronti dei modelli.