Guerra a Taiwan tra finzione e realtà

Non appena concluse le ultime manovre militari attorno a Taiwan, durate tre giorni, l’Esercito di liberazione cinese ha dichiarato di essere “pronto a combattere” per conquistare l’isola grazie a quelle che definisce pattuglie di combattimento “Joint Sword”, ovvero ha dato l’ennesimo avvertimento all’autogoverno di Taipei. A essere particolarmente crude sono le parole usate dal portavoce dei militari cinesi, ripetute perfettamente anche nei telegiornali della Repubblica Popolare: “Le truppe sono pronte a combattere in ogni momento per distruggere con decisione qualsiasi forma d’indipendenza di Taiwan e i tentativi d’interferenza straniera”. Dunque, se dal punto di vista verbale c’è stata certamente una escalation, da quello delle forze in campo in realtà questa operazione non è stata proprio come Pechino l’ha descritta. Non è infatti un mistero che la Cina abbia voluto concentrare attorno all’isola ribelle le manovre militari che lo scorso anno, nello stesso periodo, aveva svolto altrove, nel Mar cinese meridionale, lanciando però missili contro appositi bersagli. E ciò che non torna è che seppure siano stati fatti volare quasi duecento velivoli, il numero dei mezzi schierati a Pasqua era inferiore a quello coinvolto nel 2022, seppure a livello mediatico abbia fatto più “rumore”.

A parte l’intimidazione, dal punto di vista tattico le esercitazioni sono servite come opportunità per le truppe cinesi di esercitarsi a isolare Taiwan bloccando il traffico marittimo e aereo, un’importante opzione strategica che potrebbe avvenire poco prima di un vero attacco; tuttavia, avranno come effetto il rafforzamento ulteriore delle difese dell’isola, non da sottovalutare. Stante che il governo di Taiwan cerca un’alleanza sempre più stretta con gli Usa, la Cina usa qualsiasi aumento delle interazioni diplomatiche tra Washington e Taipei come scusa per muovere i suoi militari aumentando la pressione, come ha dimostrato anche in occasione del viaggio del presidente Tsai Ing-wen in America centrale avvenuto a fine marzo, durante il quale c’è però stato anche un incontro con il presidente della Camera Usa, Kevin McCarthy, seppure sia avvenuto in California e non a Washington.

In quell’occasione la Cina ha risposto imponendo sanzioni finanziarie e divieto di viaggio a coloro che erano associati al viaggio di Tsai negli Stati Uniti, ma anche con una maggiore attività militare attorno all’isola durante il successivo fine settimana. Pechino afferma che i contatti tra funzionari stranieri e il governo democratico dell’isola incoraggiano i taiwanesi a volere l’indipendenza formale, un passo che, secondo il Partito comunista cinese, porterà inevitabilmente alla guerra. Ma di fatto se l’unico effetto delle manovre militari cinesi dello scorso anno era stato quello di interrompere i voli commerciali e i collegamenti marittimi dall’isola, soprattutto le spedizioni, in una delle rotte marittime più trafficate del mondo, la scorsa settimana, nonostante la presenza di unità navali, sommergibili e aeroplani, il traffico aero-marittimo è proseguito senza grandi rallentamenti.

La versione dei media cinesi, non potendo negare che la marineria commerciale non ha subito blocchi, anche in questo caso è totalmente differente dalla realtà, con l’emittente statale cinese Cctv che, citando l’Esercito popolare di liberazione, ha affermato: “Le esercitazioni si sono concentrate maggiormente sulla forza aerea, con Taiwan che ha riportato 200 voli di aerei da guerra cinesi negli ultimi tre giorni, per simulare ondate di attacchi su obiettivi importanti dell’isola”. Particolare enfasi è stata poi riservata alla partecipazione della nuova “gigantesca” portaerei Shandong, mostrata in un video con un jet da combattimento J-15 mentre decolla dal ponte, pubblicandolo su Weibo, la piattaforma social media usata da quasi il 30% dei cittadini cinesi, una sorta di ibrido tra Facebook e Twitter. Ma ora la Shandong procederà ora verso l’Oceano Pacifico, dove secondo Pechino dovrebbe essere usata per impedire alle forze armate straniere di venire in aiuto di Taiwan, mentre nella realtà sarà oggetto di osservazione e studio da parte degli Usa e degli alleati per il contenimento della presenza cinese, come Australia, India e Giappone. Non esiste una nazione che abbia la minima intenzione di aggredire la Cina, il vero pericolo è quindi soltanto per Taiwan, ovvero che dall’interno del suo governo qualcuno agisca perché Taipei venga politicamente isolata da chi la può proteggere. Una partita lenta che però è già in atto.

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