venerdì, 24 Gennaio 2025
Guerra e suprematismo Usa, Venezia è un Campo di battaglia
(dell’inviata Alessandra Magliaro) C’è una parola che oggi si
è sentita risuonare alla Mostra del cinema di Venezia: guerra. È
come un filo rosso sangue che tiene insieme l’intera quarta
giornata a cominciare da Campo di Battaglia di Gianni Amelio,
primo dei cinque film in gara quest’anno per il Leone d’oro,
ambientato in un ospedale militare nell’ultimo anno della Grande
Guerra, con Alessandro Borghi protagonista. Echeggia poi nella
rivoluzione estremista che un gruppo di suprematisti bianchi,
croci uncinate in paesaggi western, progetta di fare a inizio
anni ’80 (e poi ritenterà ancora nell’assalto a Capital Hill del
2021) nel film in concorso The Order di Justin Kurzel, con Jude
Law agente dell’Fbi e Tye Sheridan suo aiutante. Ed è infine nel
titolo stesso, Why War, dell’israeliano Amos Gitai fuori
concorso.
Impossibile non conviverci, doveroso uscire dall’assuefazione
e cercare il dialogo: il cinema non cambia le cose, non ferma la
guerra, ma pone domande e spunti di riflessione, come Amelio e
Gitai hanno detto all’unisono in stanze diverse. Per il concorso
è passato anche il francese Leurs enfants apres eux, uno sguardo
originale di un gruppo di giovani adolescenti in una valle
sperduta e dismessa della Francia orientale negli anni Novanta.
Un coming of age che parte nel 1992, anno di nascita dei registi
gemelli francesi, Ludovic e Zoran Boukherma. I cinefili si sono
incuriositi con l’ultima opera folle di Harmony Korine fuori
concorso, Baby Invasion e con la serie di Thomas Vinterberg
Families like ours.
“Non un film di guerra ma sulla guerra” dice Gianni Amelio di
Campo di battaglia, in sala dal 5 settembre con 01. Siamo nel
1918 nell’ospedale militare subito a ridosso del fronte, guidato
dall’ufficiale medico Stefano (Gabriel Montesi), dove si curano
alla meglio i sopravvissuti e appena in piedi con le loro gambe
si rispediscono in prima linea, soprattutto quelli scoperti a
procurarsi da soli ferite per tornare a casa. Ma Giulio
(Alessandro Borghi), altro ufficiale, compagno di infanzia e di
studi di Stefano, la pensa diversamente e comincia di nascosto
una sua personale illegittima pratica per salvare quei poveri
cristi. “C’è un’utopia a monte. Questa storia – racconta con
passione Amelio – non è un apologo realistico contro la guerra
ma utopistico. Tutto va in una sola direzione: le guerre fanno
male, le vittime sono soprattutto innocenti, allora
utopisticamente per fermarle meglio che non ci siano più braccia
per imbracciare fucili. È un paradosso, certo, ma su cui si
fonda la morale del film”. Liberamente ispirato a La Sfida di
Carlo Patriarca (Beatbestseller), girato tra Veneto e Trentino,
sceneggiato da Amelio con Alberto Taraglio, intreccia la storia
della comune amica infermiera Anna (Francesca Rosellini) che
arriva nell’ospedale militare e capirà che c’è un sabotatore. Ma
la Grande Guerra non è l’unico fronte perché in quel 1918 arriva
mortale la febbre spagnola. In questo film di guerra senza la
guerra, Amelio sceglie di non mostrare i morti, “sono usurate
queste immagini, ne vediamo troppe, ci sembrano paradossalmente
irreali. Tutti i giorni da tutti i fronti, dall’Ucraina, da Gaza
e dai gommoni affondati, ci arrivano scene di morti, feriti,
bombardamenti e a questa assuefazione terribile io non ci sto.
Il cinema ha una forza emotiva data dalla storia non dall’essere
un comizio”.
Alessandro Borghi, dimagrito 12 kg per il film, racconta di “aver scoperto di nuovo l’amore per il cinema” grazie al modo di
Amelio di farlo. “Alla fine di questo lavoro – dice – sono più
le domande che le risposte. Non si tratta di dire sono contro la
guerra, è una ovvietà, lo siamo tutti, qui si va su una
sottilissima linea di scelte etiche, di relatività sul giusto e
sbagliato, e io stesso mi metto in discussione, non so ma credo
che non mi sarei comportato come il mio personaggio”.
The Order di Justin Kurzel è un thriller classico. Jude Law è
Terry Husk, problematico poliziotto dell’Fbi, che indaga su una
serie di rapine in banca e a mezzi blindati che terrorizza il
nord-ovest degli Stati Uniti. La polizia brancola nel buio e
sarà proprio lui, agente di stanza nella pittoresca e sonnolenta
cittadina di Coeur d’Alene in Idaho, a capire che non si tratta
di criminali comuni, ma di un gruppo di pericolosi terroristi di
destra al seguito di un leader radicale e carismatico, Robert
Jai (Nicholas Hoult), che sta tramando di mettere in atto una
devastante guerra contro il governo degli Stati Uniti. Tra
svastiche, cappi, citazioni dai Diari di Turner – libro ‘maledetto’ guida di varie stragi, tra cui Oklahoma City nel ’95
– The Order ci fa seguire l’indagine serrata di Husk che,
affiancato dal poliziotto locale Bowen (Tye Sheridan), si mette
sulle tracce del nemico. “Il film doveva essere fatto – dice
Jude Law che ne è anche produttore – perché c’è qualcosa di
pertinente al mondo di oggi, su quanto possa essere facile
manipolare i deboli. L’America, come altri paesi, è una società
divisa. Noi parliamo in The Order di un’ideologia pericolosa e
di come possa germinare soprattutto tra persone vulnerabili e
sfruttate. Il razzismo – conclude l’attore britannico 52enne –
aggrega gli ultimi della società e crea una comunità, una
famiglia”.
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