sabato, 16 Novembre 2024
I Giavazzi amari di Draghi
L’economista che è stato il più vicino al premier in questi mesi ha fama di artefice di nomine e tessitore di solidissime strategie economiche. In realtà, anche solo a ripercorrerne il curriculum, le cose non stanno esattamente così. In compenso, il professore ora ha idee ben chiare per il proprio futuro.
Le nomine da fare? Licenziare i Cinque stelle? Fingere che l’economia scoppi di salute? Fino a ieri era un gioco da Giavazzi, inteso come Francesco, l’alter ego di Mario Draghi, il solo del Consiglio di amministrazione che ha albergato a Palazzo Chigi (di questo si è trattato, ed è stato un passo avanti rispetto alla merchant bank di dalemiana memoria o alla «ditta» di Pier Luigi Bersani) che potesse entrare senza bussare nell’ufficio del capo. A maggior ragione per l’ordinaria amministrazione. A seguire le giravolte teoriche del bocconiano di ferro, ma non amico di Mario Monti che pretende senza averla l’esclusiva dei rapporti tra via Sarfatti e i palazzi della politica, si rischia la vertigine. Per Francesco Giavazzi ci sono tre certezze: stare attaccato come una cozza al potere, negare anche l’evidenza, non sciogliere mai il dubbio che fu posto alla gauche caviar da Nanni Moretti: mi si nota più se ci sono o se non ci sono?
I francesi lo stesso rovello l’hanno affidato ad Alexandre Dumas e la differenza si vede. Nei Tre moschettieri compare un Richelieu capace nell’ombra delle trame più fini. Anche Giavazzi, stando ai solitamente bene informati, ha suggerito al Re Mario di chiedere ad Anna (Giuseppe Conte) che fine hanno fatto i puntali di diamante provocando un’isteria collettiva. Solo che lo hanno sgamato. E alla fine è andata come aveva previsto Dumas: il capo ci ha rimesso la testa. Pare infatti che il pizzino inviato al Fatto Quotidiano dal sociologo di complemento pentastellato Domenico De Masi, in cui si diceva che Draghi avrebbe sussurrato a Beppe Grillo di liberarsi di Conte, avesse un mittente sbagliato. L’autore del suggerimento sarebbe il Richelieu allo zafferano: Giavazzi. Per questo non si trovano i «riscontri».
Il governo è entrato in sala (Marco) Travaglio, lo scenario è da Oggi le (tragi)comiche, il finale pessimo. Giavazzi che è passato, smentendo il Fabrizio De André di Bocca di rosa, dal dare buoni consigli al cattivo esempio, starebbe per insediarsi alla presidenza dell’Eni dopo aver gestito tutte le recenti nomine, tant’è che nel sottogoverno lo chiamano «Citofonare Giavazzi».
Il professore, da cane da guardia di Draghi passa al cane a sei zampe. Visto da vicino non si può dire che sprizzi simpatia, Giavazzi. Ultrasettantenne, capello alla Goethe – è un complimento professore! – bergamasco, si compiace della propria intelligenza e non lo ha mai nascosto soprattutto quando per anni dal Corriere della Sera, in tandem con Alberto Alesina, compianto docente di Harvard, ha fustigato gli economici costumi nazionali. Uno dei suoi pallini era il debito. Partiamo da lì per raccontarne carriera, trame e intoppi.
È stato come Draghi, con la distanza di appena due anni, allievo di Franco Modigliani al Massachusetts institute of technology di Boston. Con Draghi ha diviso la cattedra veneziana a Ca’ Foscari, ma soprattutto un incarico. Quando l’attuale presidente del Consiglio era direttore generale del Tesoro (dal 1991 al 2004 prima di diventare governatore di Banca d’Italia fino al 2011, e dunque qualche responsabilità sulla politica economica l’ex vicepresidente di Goldman Sachs ce l’ha) il professor Giavazzi è stato dal ’92 al ’94 in quel dicastero responsabile della ricerca economica, gestione del debito pubblico e delle privatizzazioni.
Se ci siamo svenduti mezza Italia senza trarne grande beneficio un po’ c’entra anche lui. I numeri dicono che nel ’91 a.G. (avanti Giavazzi) il debito segnava il 98,6 per cento del Pil e che a fine ’94 d.G. (dopo Giavazzi) era al 121,5 per cento. Dopo tre anni di governi tecnici (Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi) e di direzione Giavazzi ci siamo portati a casa un incremento di quasi 23 punti. Perché lui sul debito è sempre stato inflessibile. E meno male.
Da consulente della Commissione europea (dal 2000 al 2010) ha sostenuto che andava superato il welfare, nel suo The Future Of Europe (scritto sempre con Alesina) sostiene che il sistema di garanzie sociali è come la parabola della rana bollita. Ancora con Alesina ha scritto Austerità (uscito nel 2019), sancendo: «L’austerità basata sulla riduzione della spesa pubblica è meno costosa in termini di crescita ed è più efficace nella stabilizzazione del rapporto debito/Pil rispetto all’austerità basata sull’aumento delle entrate del settore pubblico».
Arrivato a Palazzo Chigi, però, si è dimenticato quell’aureo precetto, non si è intestato un risparmio di spesa che sia uno, né ha proposto sconti fiscali. Come si è dimenticato della lezione di suoi due maestri: Rudi Dornbusch e Milton Friedman.
Il primo – di cui Giavazzi ha scritto un coccodrillo agiografico sul Corsera – teorizzava che l’euro sarebbe stato soprattutto per l’Italia la via per far diventare preponderanti «recessione, disoccupazione (e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia)». Il secondo ha sancito – da monetarista eccelso e premio Nobel – che «l’inflazione è sempre un fenomeno monetario e può soltanto esser prodotto esclusivamente da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione» .
Dal cda di Palazzo Chigi il professore ha scoperto che il debito è cosa buona e giusta e piuttosto che ridurre la spesa sociale (s’è fatto piacere pure il reddito di cittadinanza) è meglio aumentare le tasse; ma soprattutto che «lo spread e l’aumento dei tassi finiranno nel medio termine per ridurre la domanda privata» e dunque la Banca centrale europea non deve contrastare l’inflazione come pensa di fare. Se si alzano i tassi il debito torna a essere un problema per l’Italia. Ma ormai sono solo affari nostri. È stato bello Giavazzi!