Il dialogo Russia-Ucraina nelle mani di Erdogan

Dunque, la guerra in Ucraina è definitivamente una questione tra «imperi»: quello russo, quello euro-americano e ora anche quello turco. Già, perché il presidente Recep Tayyip Erdogan si è scaltramente intestato il ruolo di mediatore tra Mosca e Occidente ed è probabilmente l’unico attore oggi in grado di mediare davvero tra le parti. Sempre che ciò sia il vero obiettivo di Ankara.

La Turchia gioca da tempo un ruolo molto ambiguo nel contesto geopolitico euro-mediterraneo: ora diplomatico ora aggressivo, l’approccio del governo islamista in ogni faccenda di rilievo internazionale rende oggi il Paese un attore ineliminabile dall’equazione per risolvere la crisi in Ucraina e per ridisegnare il futuro della regione.

È dai tempi dell’Impero Ottomano che non si segnalava una Turchia così attivamente coinvolta in negoziati e sforzi diplomatici a tutto campo. A partire dalle primavere arabe – peraltro vissute con non poche tribolazioni da Erdogan stesso, nel timore di un contagio che avrebbe anche potuto portare a un rovesciamento del suo stesso governo – Ankara ha collezionato un numero record di visite bilaterali.

In particolare nel mondo arabo, dove l’attivismo dei suoi diplomatici ha influenzato molte delle decisioni scaturite dalla storia contemporanea: ha preso posizione in Egitto contro Mubarak, intimandogli di lasciare il potere; ha mediato in Libano nel difficile post-Hariri; ha mediato con il Qatar nel momento della sua collisione con l’Arabia Saudita; ha puntellato i sunniti in Siria e affossato le speranze del Kurdistan; si è interposto nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan sostenendo quest’ultimo, e nel conflitto libico schierandosi con Tripoli.

Senz’altro questo è anche il risultato del decennio in cui la Turchia è rimasta alla guida dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (2004-2014), che peraltro è la seconda maggior organizzazione internazionale dopo le Nazioni Unite: da allora Iran, Iraq, Libano, Palestina, Qatar, Libia e il resto del Nordafrica hanno sempre visto i turchi accomodarsi nei tavoli che contano e contribuire a condurre sforzi diplomatici e disegnare road map per la pace. Come a dire che senza Ankara oggi non si possono chiudere buoni accordi, né commerciali né politici. La mediazione odierna equivale così a una promozione della Turchia al «tavolo dei grandi».

Del resto, il Paese è membro fondatore del G20, è stato titolare di un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu (2009-2010), aspira a fasi alterne all’ingresso nell’Unione Europea e comunque ne condiziona le politiche migratorie ed economiche, in ragione del suo crescente potere economico-militare (chiedere alla Germania e all’influenza dei turchi nel cuore antico del Sacro Romano Impero per credere).

Tutto questo è stato possibile grazie soprattutto all’attivismo e alla fermezza del suo presidente: Recep Tayyip Erdogan non meno di Vladimir Putin intende portare a compimento il suo sogno egemonico di ricostituire un impero – quello neo-ottomano in questo caso – e per tale ragione ha già pagato uno scotto non da poco: è sopravvissuto a un colpo di Stato nel 2016, e ne ha approfittato per estendere ancor più il proprio potere interno e dissuadere gli avversari internazionali. Un’esperienza che deve aver colpito molto lo stesso Vladimir Putin, il quale ne deve aver tratto una qualche lezione o, peggio, un incentivo a tentare di essere a sua volta ancor più spregiudicato del solito.

In assenza di grandi leader, Erdogan si è così trasformato in un attore di caratura internazionale, capace di notevole influenza nelle regioni dove si distendono gli interessi turchi, spinto anche da un decennio di crescita economica (mentre oggi la situazione è tutt’altro che rosea, motivo in più per riportarsi al centro della scena con un negoziato di alto valore simbolico).

A parte ciò, se non si può dire che la Turchia sia una fiorente democrazia, di certo è un partner commerciale di peso per l’intero Medio Oriente, per l’Africa e anche per due clienti oggi in rotta di collisione come Russia e Ucraina. Già, perché dove non arrivano gli sforzi diplomatici di Ankara, giungono le sue armi più sofisticate. Ed è così che, da una parte, la Turchia è l’unico membro della Nato a collaborare o quantomeno a tenere aperto un canale con la Russia in Ucraina (anche se l’avversa in Libia e Siria); dall’altra, invece, è il Paese che sta permettendo a Kiev di mantenere in equilibrio la guerra, rallentando l’offensiva russa.

La maggior parte delle immagini che da un mese a questa parte mostrano uno dopo l’altro i carri armati di Mosca andare in pezzi, sono merito dei droni Bayraktar TB2, una delle armi di punta dell’industria bellica di Ankara nonché uno dei mezzi più efficaci impiegati sul campo dagli ucraini: testati in Libia e in Siria, oggi stanno dando a Kiev un vantaggio significativo che per il momento è riuscito a colmare i deficit della sua pressoché inesistente aviazione. Questo Putin e i suoi generali lo sanno fin troppo bene, e senz’altro ne terranno di conto quando si troveranno attovagliati al tavolo delle trattative con gli emissari turchi.

Sembrano lontani i tempi in cui Ankara voltava le spalle alla Nato per acquistare sistemi d’arma da Mosca (batterie di missili S-400 per la sua difesa aerea, per un valore di 2,5 miliardi di dollari) e veniva per questo sanzionata ed esclusa dal programma sugli arei F-35 dell’Alleanza atlantica. Eppure, ormai abbiamo imparato che niente è bianco o nero con il governo di Erdogan, un uomo per il quale l’adagio «il fine giustifica i mezzi» vale più che per chiunque altro.

Come si concilia tutto ciò con l’idea turca di proporsi quale mediatore nel conflitto ucraino? Con il cinismo e l’opportunismo tipico dei regimi, per i quali l’unica parte da sostenere è quella dove sono maggiori i vantaggi. Ciò nonostante, mentre il bagaglio imperiale continua a gettare un’ombra sulle reali intenzioni di Erdogan nel conflitto russo-ucraino, di certo la geografia avvantaggia Ankara: senza lo stretto sul Bosforo e un passaggio sicuro per i Dardanelli – di pertinenza turca – lo sforzo di Mosca di annettere la Crimea sarà stato vano.

Di lì, infatti, passano ogni anno circa 50 mila navi commerciali, di cui circa 35 mila sono cargo commerciali, e 10 mila sono petroliere. Essendo dunque una delle principali rotte per il trasporto di petrolio al mondo, chi controlla lo stretto controlla la regione: e, del resto, la vera causa della guerra di Troia non fu la necessità di controllare l’accesso al canale del Bosforo e al Mar Nero, anziché vendicare il rapimento di Elena?

Ecco qual è il peso odierno di Ankara e quanto vale il suo negoziato per mediare la fine del conflitto in Ucraina. Una fine che, si badi, nonostante i buoni uffici della Turchia ancora non si vede all’orizzonte. Chi crede, infatti, che Putin intenda davvero ritirare le sue truppe dall’Ucraina e cedere terreno per accontentarsi del Donbass e della Crimea, è sulla strada sbagliata: dopo un’invasione così sfacciata e violenta, disporre di un piano del genere da sventolare giusto in tempo per l’anniversario del 9 maggio (la vittoria sul nazi-fascimo da parte dei sovietici) sarebbe per Putin uno smacco impossibile da digerire, nonostante la ricca propaganda russa tenti di rimediare come può.

Questo farebbe di un uomo che non è abituato né alle sconfitte né a condividere il potere, un leader più debole, e il suo impero a dir poco dimezzato: agli occhi del mondo e del suo popolo, ma soprattutto dei suoi pari. Se si dovesse verificare davvero quest’ipotesi, pertanto, vorrebbe dire che il colpo di Stato paventato da Joe Biden si è in qualche modo già verificato al Cremlino, e che i golpisti hanno scelto la via soft per uscire da un vicolo cieco. Ankara aspetta, e intanto ringrazia.

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