Il Forum di Davos spicca per le assenze dei potenti del mondo, arabi esclusi

Si apre oggi a Davos il Forum economico mondiale (Wef). Ma l’aria di grande evento quest’anno manca. Fratture geopolitiche (Usa e Cina in primis), la guerra in Ucraina, la crisi energetica e lo scricchiolare della globalizzazione economica, stanno trasformando l’appuntamento dove tutti volevano esserci in un salotto per pochi, anelato soprattutto dalle potenze economiche in ascesa. Con in prima linea gli Emirati Arabi, a caccia di un consenso internazionale, consci che il petrolio non può tutto.

A parlare è il titolo stesso scelto dagli organizzatori del Forum (dal 16 al 20 gennaio): ‘La cooperazione in un mondo frammentato’. Il mondo del business, della politica e dell’economia si dà appuntamento tra le montagne svizzere per parlare di economia, energia, clima, sicurezza e ovviamente degli effetti della guerra in Ucraina (presente con una micro delegazione). Sono attesi 52 capi di Stato e di governo e 600 top manager. Ma il rumore lo fanno le grandi assenze tra l’élite globale quest’anno. Niente Joe Biden (e neppure la vice Kamala Harris). Non si faranno vedere né Macron né l’inglese Rishi Sunak e l’Italia sarà rappresentata dal ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara (scelta che parla a voce alta). Tra i leader del G7 l’unico a presenziare sarà il cancelliere Olaf Scholz. «La presenza della sola Germania fa capire che questo sarà un Davos in tono minore. Le tensioni geopolitiche (Cina, Russia, Europa, Usa) ci dicono che non è più tempo di multilateralismo, ma è il momento del bilateralismo. La frammentazione del contesto internazionale fa venire meno il carattere universalista di Davos.», spiega Arturo Varvelli, Direttore dell’European Council on Foreign Relations (ECFR).

Mancherà ovviamente la Russia (ospite non gradito), ma soprattutto la Cina. E questa è l’assenza che più si fa notare e più parla del futuro di Davos. «I cinesi nel passato sono stati protagonisti qui, ma la sempre presente competizione tra Usa e Cina è stata acutizzata dalla guerra in Ucraina e Pechino si è ancor più distaccata dai partner occidentali», spiega Paolo Manasse, Professore di macroenomia all’ Università Bologna. Sono sempre più evidenti i tratti dell’autocrazia cinese, dopo avere usato per anni la globalizzazione e la libertà di commercio per accrescere la propria potenza economica. «La Cina è un gigante, ma un gigante povero. Nonostante i progressi degli ultimi vent’anni, ha ancora molta strada da fare. I leader di Pechino lo sanno, non possono fare a meno dell’Occidente e questo sarà il freno ad una guerra fredda commerciale. Il Paese sta crescendo a ritmi del 3% e quell’8% del passato è lontano. I rapporti con l’Occidente, con Usa e Europa, sono fondamentali per Pechino» continua Manasse.

Il salotto buono di Davos soffre anche per la ritirata del sistema economico che ha avuto la meglio dagli anni ’90 in poi, la globalizzazione. Il Forum è strutturalmente legato alla globalizzazione e ha avuto il suo apice proprio negli anni (Novanta e Duemila) in cui gli Stati Uniti erano i grandi dominatori della globalizzazione, che usavano come strumento di leadership sul globo. «Ma ora la globalizzazione sta vivendo una nuova fase. Si parla di off-shoring e re-shoring, near-shoring. – spiega Varvelli – Si riporta la produzione da dove proviene, non solo e tanto per motivi economici, ma soprattutto per motivi politici. La nuova globalizzazione è un tentativo di tutelarsi dal rischio geopolitico, l’economia non risponde più a ragioni solamente economiche (delocalizzazione, convenienza nei processi di produzione), ma anche a motivazioni politiche di rischio geopolitiche. La Cina stessa qualche anno fa a Davos si fece promotrice proprio di una nuova forma di globalizzazione». Anche il Covid, gli effetti della pandemia, hanno spinto verso il ritorno a casa delle aziende che hanno vissuto l’interruzione delle catene di produzione. «Questo movimento contrario alla delocalizzazione non ha le sue ragioni in barriere commerciali o rotture di accordi di commercio. Questi sarebbero motivi costosi e preoccupanti», conclude Manasse.

Tra grandi assenti e difficoltà del sistema della globalizzazione spicca la delegazione degli Emirati Arabi, che si presenta con grandi numeri, mirando a un posto al sole non solo come produttore di petrolio e mercato interessante per il settore del lusso. «Negli ultimi dieci anni hanno lavorato per essere riconosciuti come qualcosa di più di una semplice potenza regionale, vogliono accrescere la propria dimensione strategica ed entrano nella frattura geopolitica ed economica ponendosi come punto nevralgico nelle relazioni tra est e ovest, tra Paesi produttori e consumatori. Giocano su più tavoli», continua Varvelli. A Davos si pongono come importanti protagonisti delle relazioni internazionali, consci che il petrolio non basta per creare una crescita perdurante.

E infine a Davos dovrebbe arrivare Mario Draghi. «E’ sempre riconosciuto e apprezzato dai circoli internazionali. Visto come salvatore dell’euro durante le crisi del debito, quindi iniziatore di politiche espansive che avevano portato l’Unione Europea fuori dalle crisi gravi, poi leader europeo di prestigio e poi in veste di politico saggio», spiega Manasse. E in futuro? «Io penso che sia una risorsa dell’Unione Europa e della Comunità atlantica. Se pensiamo al dopo…potrei vedere un ruolo nell’UE o come segretario generale della Nato», conclude Varvelli.

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