giovedì, 14 Novembre 2024
Il meglio di Spike Lee in cinque film imperdibili
Nessun regista nella comunità afroamericana ha avuto un’importanza così incredibile monumentale come Spike Lee, piccolo fauno newyorkese armato di irriverenza, ironia, intelligenza e una capacità innata di creare personaggi iconici e pregni di significato.
Oggi che compie 65 anni, è giusto onorare uno dei più grandi registi della sua generazione guardando a quali tra i suoi film, sono i più iconici, i più riusciti, quelli in cui riuscito a parlarci della società americana.
Un società che per Lee è da sempre affetta da razzismo, sessismo, violenza e un credo materialista di cui ha descritto l’essenza in diversi modi, sapendo coniugare impegno con un abilità narrativa unica nel suo genere.
Malcolm X
Sicuramente un grandissimo punto di svolta per la sua carriera lo rappresentò questo magnifico biopic su Malcolm X, di fatto il film che lanciò definitivamente nel firmamento uno dei più grandi attori di tutti i tempi: Denzel Washington.
Qui fu chiamato per interpretare il politico, attivista e leader religioso diventato uno dei simboli per eccellenza della lotta degli afroamericani per la conquista della propria libertà e della propria identità.
Parte della critica vi trovò alcuni limiti nella struttura diegetica, nel ritmo, ma oggettivamente misurarsi con una figura storicamente così gigantesca e importante, avrebbe fatto tremare i polsi e chiunque e compromesso il risultato di ogni regista, ma non di Spike Lee.
Scevro da ogni retorica, spartano visivamente incredibilmente intenso per la potenza del messaggio e delle tematiche che affronta, Malcolm X è privo di ogni intendo lirico o retorico, ci parla del difficile percorso di automiglioramento e presa di coscienza da parte di un ragazzo vomitato dal peggio dei ghetti americani, che in carcere attraverso l’Islam, trovò infine la propria vocazione: quella di saper mostrare una via di riscatto a quella comunità afroamericana che di fatto era ancora schiava all’interno della società statunitense.
Se Washington riuscì a toccare vette di potenza e incisività incredibili, ciò fu dovuto senz’altro anche all’abilità con cui Spike Lee seppe creare una struttura in crescendo, una narrazione fluida e allo stesso tempo esaustiva, lontana dal pensare che solo i bianchi fossero i nemici di quest’uomo, capace di andare oltre le proprie paure ed i propri limiti, di correggersi e capire come la solidarietà e l’amore verso il prossimo forse ho le chiavi per la Libertà collettiva.
He Got Game
Ancora Denzel Washington protagonista di un grande film sulla comunità afroamericana, questa volta una piccola storia micro di fantasia, su un ragazzo dotato di un talento incredibile del basket, sulla decisione che deve prendere sul suo futuro e su come questa influenzerà anche il destino del padre Jack.
Washington fu questo individuo dispotico e violento, a cui però quel ragazzo deve quella forma mentis e quella determinazione che lo hanno posto nella condizione di poter aspirare a diventare un grande della NBA. Spike Lee con He Got Game creò uno dei film più importanti di sempre su quell’atroce inganno che è il sogno americano, sulla tossicità del culto del successo della cultura sportiva a stelle e strisce, ma più ancora sulla tragedia della comunità afroamericana, condizionata da una ignoranza, povertà di mezzi e mancanza di prospettive assolutamente terrificante. A causa di queste problematiche, emergere e trovare la propria strada per un afroamericano ancora oggi significa di base o diventare un musicista o diventare un giocatore di basket. In caso contrario si era comunque condannati a restare nelle ultime fila.
Accanto a tale tematica, Spike Lee fu bravissimo nel creare anche un film che parlava di paternità, del difficile rapporto con il proprio futuro ed i propri sogni, di due anime spezzate eppure unite dalla paura e dalla sofferenza. Il basket diventa qualcosa di più di uno sport, è un modo di vedere la vita, di vedere se stessi e il proprio rapporto con gli altri, ma soprattutto è diventato bene o male un’espressione degli afroamericani, la metafora di una felicità che in pochi di loro riescono a raggiungere.
La 25ª Ora
Da certi punti di vista questo è forse il suo film più grande, più profetico e politicamente più importante di sempre. La New York scossa dalla tragedia del 11 settembre è la grande protagonista di un’analisi universale sulla società, sul nostro razzismo e la nostra intolleranza, sulla violenza verso se stessi e gli altri, prendendo spunto da uno straordinario romanzo di David Benioff.
Monty Brogan, interpretato da un monumentale Edward Norton, diventò in quel 2002 il simbolo della rabbia dell’uomo bianco verso gli altri, ma più ancora della debolezza, dei sensi di colpa, dell’incapacità di dominare la propria vita in virtù di un vittimismo e di un continuo scaricare sugli altri le proprie problematiche vivono i propri difetti ed i propri errori.
Film potentissimo grazie a dialoghi e monologhi diventati leggendari, incredibilmente dinamico per regia rispetto anche agli standard già elevati di Spike Lee, La 25ª Ora è a tutti gli effetti l’istantanea che il regista dedica alla sua città, più in generale all’America scorsa da un attacco brutale che aveva risvegliato in lei i peggiori istinti, distrutto il mito del melting pot, della Grande Mela come Babilonia.
Rimane senza ombra di dubbio il film simbolo della fine dell’illusione ottimista degli anni ’90, spazzati via non solo dagli aerei schiantatisi sulle Torri Gemelle, ma anche dalla sconfitta della Terza Via, dalla resa del movimento no global e dal ripresentarsi di un mondo sempre più classista ed intollerante, preda di antichi incubi e moderni oppressori.
A conti fatti è anche un film generazionale, su quei millennial che erano sicuri di avere di fronte un futuro roseo e prosperoso, sui loro fratelli maggiori che vedono assieme a loro invece morire la loro gioventù, stritolata da un mondo in fiamme.
Fa’ la cosa giusta
Probabilmente il film più divertente, anarchico e politicamente impegnato ha fatto da Spike Lee, quello in cui trasuda maggiormente la sua rabbia giovanile e il suo attivismo, la disillusione verso la città che lui ama così tanto, e gli abitanti che ne compongono l’incredibile macrocosmo.
Fa’ la cosa giusta è un film corale schizofrenico, divertentissimo, grottesco e feroce, in cui grande regista americano fu capace di cogliere la tragedia di una città in cui un’ondata improvvisa di caldo diventava il casus belli attraverso il quale mettere in mostra le divisioni e contrasti razziali, la mancanza di giustizia sociale. Quel film nel 1989 fu l’analisi spietata di come l’America dopo tanti anni bene o male non fosse mai riuscita a distruggere questo terribile nemico.
Fa’ la cosa giusta fu accolto in modo contraddittorio della critica, indicato dalla parte più liberal di Hollywood e della cinematografia europea come un film incredibilmente provocatorio nel senso più alto e sano del termine, mentre tanti altri vi colsero anche un accentuato antisemitismo, addirittura qualcuno tirò fuori la parola di marxismo.
Di certo il vederlo escludere dalla lista dei film candidati agli Oscar è ancora oggi una delle più grandi ingiustizie di quel decennio. Tuttavia, con il passare degli anni, questo film è stato giustamente indicato come uno dei film politici più importanti mai fatti degli ultimi decenni, di certo uno dei più spiazzanti ed audaci nell’affrontare la tragedia della società americana senza risparmiare niente nessuno, senza alcuna mediazione e affrontando anche i punti di vista più quotidiani e insoliti. Forse la realtà, è che questa è soprattutto una pellicola sull’odio, quello primitivo e atavico, quello attraverso il quale la società americana rimane soprattutto una costruzione individualista e assolutamente scevra da ogni concetto di armonia. Qualcosa che Spike Lee in realtà ha sempre cercato di farci comprendere, con fantasia e originalità.
BlacKkKlansman
Nell’America animato dalla revanche del suprematismo e dell’odio razziale grazie a Donald Trump, Spike Lee fece uscire BlacKkKlansman, con protagonisti John David Washington e Adam Driver, basato sull’autobiografia scritta dall’ex agente della Polizia di Stato di Colorado Springs Ron Stallworth.
Nei primi anni ’70, Ron assieme al collega Flip Zimmerman, dette il via ad un’operazione di infiltrazione all’interno del Ku Klux Klan, in cui l’uno si spacciava per l’altro e viceversa, tra telefonate e raduni, mentre il movimento per i Diritti Civili veniva perseguitato ingiustamente. Di tutti i film che ha realizzato sul razzismo, questo forse è quello storicamente più onnicomprensivo, che si connette profondamente alla Storia dell’America, quella degli Stati del Sud in particolare ma non solo, che ci parla di un paese ancora oggi diviso in base alla razza così come lo era ai tempi di padri fondatori, in cui il potere è nelle mani dei bianchi e con essa quella legge che si usano per opprimere le minoranze.
Sovente divertente e irriverente, è però comunque permeato da una ferocia e da un’atmosfera di violenza attuale disturbanti, ed è anche una lente di ingrandimento su quell’America bianca, profonda e bigotta, tornata alla ribalta grazie ad uno dei presidenti più controversi i populisti di tutti i tempi, la stessa che poi ha dato l’assalto al Campidoglio due anni fa.
Più che un film quindi, Blackkklansman è un trattato sociologico e politico, ma anche una premonizione a ciò che sarebbe diventata d’America di lì a poco: una nazione di nuovo divisa tra nord e sud, in cui gli echi della guerra civile non sono mai stati veramente risolti perché mai veramente affrontate alla radice. Il razzismo per Spike Lee è del resto qualcosa di quasi insito nella società americana, il demone dall’altro lato dello specchio, da combattere però sempre e comunque.