martedì, 26 Novembre 2024
«Il Partito Democratico va chiuso e rifatto». Lo dicono quelli del Pd…
Rosy Bindi sostiene che il Pd non va cambiato: va semplicemente sciolto. A lei si aggiungono diversi intellettuali convinti che il partito democratico sia irriformabile. Non esistono congressi, occorre fare tabula rasa. Come una casa diroccata, costerebbe più ristrutturare piuttosto che spianare e rifondare da zero.
Il fatto che il mondo progressista e democratico sia in disfacimento è provato dal fatto che per la prima volta da anni si impone alle elezioni una creatura a sinistra del Pd con vita propria. Si tratta del Movimento Cinque Stelle targato Giuseppe Conte, che pur con metodi discutibili (una campagna elettorale simile a una televendita di pentole) ha saputo conquistarsi un serbatoio di consenso in una precisa area elettorale del meridione, senza avere timore di abbassarsi ad ascoltare il grido di dolore che arriva dalle case popolari. Se la classe politica dem non si desta dal torpore e non trova il coraggio di uscire dalle isole pedonali dei centri storici, il rischio concreto è quello di vedersi fagocitare dall’Avvocato in pochette, in una sorta di opa ostile ai danni di ciò che resta di un partito fratturato. Diviso tra chi subisce il richiamo delle sirene centriste, e chi invece dà per scontata una nuova alleanza con i Cinque Stelle, o forse qualcosa di più di un’alleanza. Resta il fatto che da oggi Giuseppe Conte potrà vivere in un certo senso di rendita, continuando a presentarsi come “la vera sinistra” italiana, visto che quella ufficiale è ormai moribonda.
Pensare di rifondare il Pd non sarà semplice. Perché non è soltanto un problema di marchi, o di programmi. E’ soprattutto un problema di persone. Come ha scritto oggi Luca Ricolfi, “il Pd non è un partito socialdemocratico, che si rivolge ai ceti popolari e ne interpreta i bisogni, ma il partito dell’establishment ossessionato solo da due temi: l’accoglienza dei migranti e le battaglie per i diritti civili”. E’ esattamente così: le battaglie etiche, quelle che solo i ceti benestanti possono permettersi, sono l’unica preoccupazione dei dem. I diritti sociali sono sempre stati snobbati, e così sono diventati bandiere delle destre. E il dramma è continuano a snobbarli anche oggi, con le bollette che triplicano e l’intero sistema industriale italiano sull’orlo dell’abisso.
La nomenklatura del Pd, anziché scannarsi sul nome del prossimo segretario (non si vedono nuovi Berlinguer all’orizzonte) dovrebbe dunque prendere una decisione: cosa vogliono fare da grandi? Continuare ad essere il partito della nobiltà della Ztl, o sporcarsi le mani mettendo piede nelle periferie? Nella seconda ipotesi, come una gigantesca seduta di psicanalisi, i dem dovranno fare un duro lavoro su sé stessi, davanti allo specchio, con sincerità. Dovranno anzitutto scendere dal piedistallo, rinunciare alla loro abitudine di sentirsi superiori culturalmente, e risintonizzarsi con il popolo.
Non sarà semplice. Il video di Laura Boldrini che si scontra con le ragazze pro-aborto, e anziché riconoscerne le ragioni applaude sarcasticamente, ci aiuta a capire che è tremendamente difficile, per chi è abituato a convivere con le elites, mettere il piede sul selciato della gente comune. E’ difficile mettere in discussione la propria identità: ma è una strada obbligata, perché l’alternativa è la dissoluzione.
Ancor prima di sciogliere il Pd, dunque, bisogna sciogliere i nodi che legano il Pd a certi pregiudizi. Primo tra tutti: la convinzione che loro sono infallibili, e sono sempre gli altri a sbagliare. Dopo la sconfitta elettorale non un esponente del partito democratico ha pronunciato chiare parole di autocritica. Il riflesso condizionato è sempre stato questo di cercare il capro espiatorio. Ecco: il primo passo della resurrezione della sinistra comincia da un gesto cristiano e rivoluzionario nello stesso tempo: il mea culpa. Chiedere scusa.