Il Pd vince i ballottaggi dell’astensione record

Nelle città il centrosinistra ha vinto. O meglio: è il centrodestra che ha perso. Scelte sbagliate nelle candidature civiche hanno sicuramente contribuito al risultato: basti vedere il distacco tra Gualtieri e Michetti a Roma. E’ vero che la sinistra gestiva la maggioranza dei comuni in lizza, ma anche a Trieste, amministrazione uscente di centrodestra, è testa a testa all’ultimo voto.

Ma in realtà il vero vincitore di questa tornata amministrativa è un altro, e si chiama astensione. Mai si era vista una tale ondata di indifferenza travolgere l’istituzione dei municipi, tradizionalmente percepita come quella più vicina al cittadino. Persino a Milano, città da sempre attenta alla partecipazione, per la prima volta nella storia è andato a votare meno di un elettore su due.

Ricordate il ’92? Il crollo del sistema dei partiti della prima Repubblica? In quella fase della storia repubblicana si impose il modello del sindaco civico, slegato dai partiti. Rutelli a Roma, Cacciari a Venezia, Illy a Trieste. La figura del sindaco, da allora, complice una legge elettorale maggioritaria, veniva tradotta come “colui che risolve i problemi”, che ripara i tombini, che pavimenta i marciapiedi, l’emblema della concretezza di prossimità, contrapposto alle ideologie parolaie di chi governa a Roma. Ecco, dopo questo giro elettorale l’innamoramento deve essere finito. Una tale fuga dalle urne non può che far pensare a una rassegnazione popolare, una sfiducia generale che va a colpire anche i Comuni.

I segnali della fine dell’incantesimo si percepivano da tempo, e la pandemia con conseguente governo di unità nazionale sembra aver accelerato il processo. Il fatto che dal 2011 l’Italia non esprima un governo di diretta derivazione elettorale, sembra aver diffuso in larghe fasce della popolazione la convinzione che il voto conti ben poco. Sarà un caso, ma il governo più decisionista degli ultimi decenni coincide con l’apice della fuga dalla politica dei cittadini, come se il sentimento popolare – o buona parte di esso – non trovasse rappresentanza nelle istituzioni. C’è una parte del sentire comune che evidentemente non trova ospitalità nel governo, non la trova nel parlamento segnato da una maggioranza bulgara, e certamente non la trova nella magistratura. E a quanto pare nemmeno nei Comuni, a giudicare dal responso delle urne. Quasi che l’unanimismo pro-Draghi abbia dato il colpo di grazia a ciò che restava del carisma dei sindaci.

Aggiungiamo poi il fatto che il mestiere di sindaco, da vetrina che era, sta diventando una maledizione: nessuno sembra più volersi cimentare con il rischio di essere impallinati da inchieste allegre della magistratura, e dunque molte personalità competenti, dopo aver fatto due conti, pensano che a scalare i municipi ci sia più da perdere che da guadagnare. E questo sicuramente non facilita la vita a chi deve selezionare le candidature, nella speranza di coltivare una classe dirigente solida: necessità questa che appartiene a tutti, da sinistra a destra.

Enrico Letta canta vittoria dopo il voto nelle città, come se avesse vinto le politiche. Guai però a chiedere il voto anticipato; il Pd sa benissimo che sarà una partita ben diversa. Ma, vista la situazione, siamo sicuri di non aver perso tutti?

Anzi, a voler ben vedere, perdono tutti meno uno: Clemente Mastella. Ancora lui, sempre lui, inossidabilmente lui. Incredibilmente in vantaggio nella sua Benevento, a un passo dalla riconferma a sindaco-sultano della città. In questi tempi confusi, ormai Mastella è come un monumento nazionale: cambiano le repubbliche, i partiti, i costumi, e le mode. Ma solo lui resiste sulla cresta dell’onda, invulnerabile.

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