Il silenzio dell’Onu sulla guerra in Ucraina dimostra la sua totale inutilità

Nato, G7, G20, Consiglio d’Europa, Consiglio europeo, Aiea. Tutti i più grandi organi di controllo politico, economico e amministrativo delle organizzazioni internazionali (oltre ai parlamenti dei singoli Paesi) si riuniscono per gestire la crisi in Ucraina e brigano per portare risultati e fatti concreti. Tutti tranne uno. Quale? L’Onu.

Le Nazioni Unite al momento si limitano semplicemente a commentare una guerra «politicamente indifendibile e militarmente priva di senso» come sostiene il segretario generale Antonio Guterres. «È tempo di fermare i combattimenti e dare una possibilità alla pace» dice il portoghese succeduto al sudcoreano Ban Ki Moon (il cui doppio mandato di dieci anni è stato giudicato unanimemente dimesso e inefficace). Belle parole, certo, ma svuotate di efficacia.

Per esprimerle sarebbe bastata la Santa Sede e, peraltro, avrebbero avuto un effetto meno stridente con la missione del Palazzo di Vetro. Che, precisamente, è «il mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni, il perseguimento di una cooperazione internazionale». Già, ma quale sicurezza?

L’ultima assemblea dell’Onu lo scorso 5 marzo ha sì approvato una risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina: dei 193 Paesi membri sono stati 141 i voti a favore, 5 i contrari (Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord, Siria) e 35 gli astenuti, tra cui Cina e India. In sostanza, la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo è contraria all’invasione russa dell’Ucraina. Ma la conseguenza di quel voto? Nessuna.

La sfida del segretario Guterres, ex alto responsabile dell’Ufficio Onu per i rifugiati, sono certo immense: ridare prestigio, credibilità e capacità decisionale a un’organizzazione nata 70 anni fa per assicurare la pace nel mondo, e che col tempo si è dimostrata a più riprese incapace di gestire le crisi internazionali. Ma da qui ad arrendersi ce ne corre.

Tutti concordano che le Nazioni Unite hanno le mani legate, perché quel famoso diritto di veto in mano ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, ne blocca ogni iniziativa. E se è facile dissertare sui motivi per cui il Consiglio spesso s’inceppa – e vogliamo credere che tali motivi siano esclusivamente nell’architettura con cui è stata concepita l’Organizzazione – meno facile è accettarne l’impotenza, come se una riforma di quest’organo non fosse possibile. Ci provò Kofi Annan fino al 2006, ma da allora più nulla è stato fatto.

Il Consiglio di Sicurezza, massimo organo decisionale in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, è attualmente composto da 15 Stati membri, 5 dei quali permanenti. Ora, dato che i membri permanenti sono soltanto Regno Unito, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti e che il veto di uno solo dei cinque rende impossibile l’adozione di una risoluzione vincolante, si può ben comprendere l’inutilità di questa organizzazione e la sterilità di ogni sua azione. Specie di questi tempi, ad esempio, quante volte votano in accordo Stati Uniti e Russia?

Certo l’Onu gestisce non solo i conflitti, ma anche crisi legate alla fame nel mondo, alla gestione dei rifugiati, alla tutela dei bambini. E, in questo campo, i risultati si possono vedere alla luce del sole. Ma quanto ai conflitti, il Palazzo di Vetro balbetta.

L’ultima «commissione dei saggi» che per volere di Kofi Annan studiò la riforma del Consiglio di Sicurezza per evitare lo stallo attuale, partorì due importanti proposte, conosciute come «modello A» e «modello B»: entrambe prevedevano di portare a 24 i membri del Consiglio, in modo che fosse «ampiamente rappresentativo delle realtà del potere nel mondo di oggi», dando la precedenza dell’allargamento a quei Paesi che contribuiscono più degli altri alle attività dell’Onu «in termini finanziari, militari e diplomatici».

Il segretario propose anche di creare una definizione unanime di terrorismo: «Qualunque azione che mira a causare la morte o seri danni fisici a civili o non-combattenti, con l’obiettivo di intimidire una popolazione o spingere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un atto». Parole che sembrano attagliarsi bene anche al conflitto russo-ucraino.

Non solo: Annan si voleva spingere a definire con chiarezza i princìpi e le modalità d’ingaggio delle nazioni per il ricorso dell’uso alla forza, nonché una riforma del meccanismo di «peacekeeping» che includesse anche l’Unione Europea. E un’azione del genere – «peacekeeping» significa schierare forze d’interposizione che garantiscano il rispetto di un cessate il fuoco, un armistizio o una pace fragile – è infatti oggi sul tavolo delle trattative per la crisi in corso nell’Est europeo: via gli eserciti, sì ai caschi blu per ricomporre il mosaico etnico geografico dell’Ucraina. Ma nessuno crede di poter davvero tirare fuori dal cassetto quei fascicoli, che restano confinati nello scantinato in quel di New York, sede centrale dell’organizzazioni, insieme alla riforma Annan. Perché?

Di certo, di fronte alle devastazioni in Ucraina, l’impotenza dell’Onu non trasmette fiducia per il suo futuro, tantomeno per la centralità di tale istituzione. Nate nel 1945 dal fallimentare tentativo d’inizio Novecento della Società delle Nazioni (il cui risultato fu la Seconda Guerra Mondiale), le Nazioni Unite sono insomma uno strumento importantissimo «per preservare la pace e la sicurezza collettiva grazie alla cooperazione internazionale», ma non funzionano.

Dal 2011, anno in cui sono iniziate le disgraziate primavere arabe, le Nazioni Unite hanno conosciuto una lenta involuzione. Basti pensare che l’ultimo trattato di pace tra israeliani e palestinesi è stato concluso con gli Accordi di Oslo del 1993, e solo grazie all’impegno degli americani che portarono al tavolo delle trattative Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Da allora, dell’Onu in Medio Oriente non si è avuta più alcuna traccia.

Ogni tanto, per giustificare la loro esistenza, le Nazioni Unite battono un colpo, ma più spesso il suono riprodotto è una stonatura. Come quando nel dicembre del 2015 l’Assemblea Generale ha condannato la decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di interrompere la finzione burocratica che da anni bloccava il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale d’Israele. E, per restare in Medio Oriente, hanno assistito senza muovere un dito alla distruzione dell’Iraq a opera degli americani, alla crisi siriana, alla nascita dello Stato Islamico. Perché questa incapacità di agire?

L’Onu odierno è un’organizzazione pachidermica e costosissima. È paralizzata dal suo statuto. Non solo nel suo Consiglio di Sicurezza il potere ha sempre bloccato qualsiasi decisione razionale. Ma il problema è anche nel fatto che sua Assemblea Generale il voto di ogni Paese membro ha lo stesso identico peso: di conseguenza, l’Ecuador vale quanto la Russia, il Nepal quanto gli Stati Uniti. Inoltre, l’Assemblea Generale è dominata da Paesi che non sono esattamente l’immagine della democrazia quale noi la consideriamo, bensì sono retti in buona parte da autocrazie, da dittature o da governi falsamente democratici. Tutto ciò rende l’Assemblea Generale un’organizzazione nella quale si parla molto e si decide poco.

Un esempio su tutti: il 3 settembre 2001 a Durban, Sudafrica, le delegazioni israeliana e americana abbandonarono la conferenza sul razzismo organizzata dall’Onu perché la dichiarazione finale del summit fu ritenuta offensiva per lo Stato Ebraico. Il testo, infatti, pur non nominando Israele, accusava implicitamente Tel Aviv di razzismo e di applicazione dell’apartheid contro i palestinesi, spinto dalle delegazioni di numerosi Stati arabi presenti alla conferenza.

L’ambiguità dell’Onu e della diplomazia internazionale rimane tutta in una frase del testo finale prodotto: quel palestinian plight che poteva significare al contempo «situazione critica», «condizione drammatica», ma anche più semplicemente «situazione spiacevole». Una terminologia diplomatica volutamente ambigua. che non aiuterà i lavori delle successive conferenze sul razzismo. E che di certo non ha aiutato né Israele né la Palestina.

Cosa dirà oggi il Palazzo di Vetro dopo che le forze armate russe hanno preso in ostaggio 11 autobus con almeno mille civili ucraini in procinto di evacuare dalla martoriata città di Mariupol? Cosa pensa Guterres delle bombe sugli ospedali di Mosca? La stessa cosa che pensava delle bombe sugli ospedali di Aleppo, in Siria: « Non esiste una soluzione militare. L’unica strada per la stabilità è una soluzione politica facilitata dalle Nazioni Unite credibile e inclusiva». Sappiamo com’è andata a finire: dopo che è stata superata la cifra orrorifica di quattrocentomila morti, l’Onu ha smesso di contare i morti in Siria. E oggi nessuno più se ne cura.

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