mercoledì, 27 Novembre 2024
Ilva, salta la vendita. Acciaio nel caos per colpa del Pd
Tremila dipendenti in cassa integrazione almeno fino al 2025: non si è fatta attendere la risposta di Acciaierie d’Italia all’affossamento da parte del Pd dell’articolo voluto da Draghi nel milleproroghe. Giovedì 10 marzo l’azienda ha convocato i sindacati presso la sede di Confindustria a Roma per provare a raggiungere l’accordo che sicuramente non ci sarà, perché la Uilm ha già detto che non firmerà la cassa integrazione e non si renderà complice di un bagno di sangue che comprende anche il negato reimpiego dei 1900 esuberi dell’Amministrazione straordinaria.
L’articolo soppresso ricordiamo spostava i 575 milioni per il piano ambientale dalla disponibilità dell’amministrazione straordinaria (con i bilanci omissis) a quelle di acciaierie d’Italia.
Ma il pd quella notte, affidando la trattativa a Francesco Boccia, ha provato a vincolarne l’utilizzo ad un’intesa con il presidente della regione Puglia Michele Emiliano provando anche a nominarlo commissario ad acta di Ilva, e quel punto 5 stelle e Forza Italia hanno fatto saltare l’articolo.
Risultato: da fine marzo altri 3000 operai, di cui 2500 solo a Taranto, staranno almeno per due anni a casa. A loro si aggiungono i 1900 di Ilva in Amministrazione straordinaria, quelli che secondo il tweet di Conte “potranno essere reimpiegati per le bonifiche”. E invece sono esuberi di fatto.
A questo si aggiunge un’altra doccia fredda: salta la data di maggio 2022 entro cui era prevista al scadenza del contratto di affitto con obbligo di acquisto. Il closing della vendita non ci sarà perché l’impianto è ancora sotto sequestro. Era questa infatti una delle tre condizioni di sospensiva senza il verificarsi delle quali l’azienda sarebbe tornata nelle mani dell’amministrazione straordinaria. Tutta l’area a caldo infatti è sotto sequestro preventivo dal 2012 per volere del Giudice delle indagini preliminari. E siccome dopo 10 anni non è ancora stata pubblicata la motivazione della sentenza di primo grado, finché il fascicolo non trasmigra alla Corte di Appello i commissari non presenteranno istanza di dissequestro.
Solo la firma di un nuovo accordo tra le parti potrà rinviare la data del closing evitando l’annullamento del contratto di vendita e il ritorno alla gestione dell’Amministrazione straordinaria.
Ma non è affatto scontato che questo accordo si trovi, come pure che ArcelorMittal non decida invece di abbandonare definitivamente l’Italia anche con quella quota societaria che resta nella compagine che a quel punto diventerebbe completamente pubblica. Previa liquidazione da parte dello stato della società privata. Sempre che il governo riesca a reperire i fondi necessari per tale operazione.
Nel frattempo in un momento in cui il mondo dell’acciaio è particolarmente sotto pressione per il blocco delle esportazioni di semilavorati dall’Ucraina che ferma diverse aziende italiane, Ilva potrebbe essere l’unica risposta al mercato interno essendo la sola in Italia autonoma con la produzione di acciaio integrale. E invece viene tenuta inspiegabilmente a mezzo servizio.
L’azienda nella lettera spiega che “solo il raggiungimento di volumi produttivi pari a 8 milioni di tonnellate l’anno, presumibilmente entro il 2025, consentirà il totale impiego delle risorse”.
Ovviamente questa nuova richiesta di cassa integrazione straordinaria dovrà essere autorizzata dal Ministero del Lavoro, ma Andrea Orlando non potendo giustificare la scelta antigovernista del suo partito ha deciso di non tenere al ministero il tavolo della trattativa, ma di riceverli solo dopo che hanno raggiunto l’accordo. Per questo l’azienda ha convocato i sindacati giovedì 10 marzo presso la sede di Confindustria a Roma. Ma la Uilm, che è il primo sindacato in Ilva, ha già detto che non firmerà e non si renderà complice di questa richiesta che tra l’altro viola l’accordo sindacale già firmato nel 2018 e non ancora attuato.
Di tutto questo sembra ci siano rimasti solo il Presidente Draghi e Rocco Palombella a preoccuparsi. “Da tre anni – ha tuonato il segretario nazionale della Uilm- abbiamo oltre 5 mila lavoratori in cassa integrazione solo a Taranto. Tutto questo è costato trecento milioni di euro senza alcun ritorno economico, ambientale e industriale. Soldi pubblici che potevano essere investiti in tutt’altro modo. E’ questo è il piano di riconversione voluto dal Governo?”.
In realtà una buona notizia in teoria ci sarebbe. Ed è che il revamping dell’afo 5 si farà. Il rifacimento dell’altoforno spento dal 2015 per lavori, e mai più riacceso, che da solo produce 3,5 milioni di tonnellate d’acciaio, è sempre stato nei progetti dell’azienda anche nel piano industriale presentato da Arcuri, Gualtieri e Patuanelli a dicembre 2020, ed è l’unica garanzia non solo di occupazione per 8000 lavoratori, ma anche, come sempre riconosciuto anche dalle associazioni industriali oltre che dai sindacati, di mantenimento della strategicità del siderurgico tarantino e dell’interesse nazionale, che è tale solo se si conserva nel nostro Paese un impianto di acciaio integrale, ovvero non dipendente da rottami, gas o semilavorati dall’estero.
Di questo, per fortuna, ne è pienamente consapevole l’attuale presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè. In una intervista rilasciata al Secolo XIX, quotidiano sempre attento alla cronaca Ilva, ha descritto un quadro della realtà con una lucidità che da tempo mancava a chi, con più o meno titolo, ha parlato o straparlato negli ultimi anni di ilva: “Importiamo dalla Russia 2,2 milioni di tonnellate di ghisa e di preridotto, dall’Ucraina 2,5 milioni di tonnellate di semilavorati-ha detto Bernabè- Semmai ce ne fosse bisogno, quanto sta accadendo testimonia l’importanza di avere in Italia un’industria siderurgica forte, autonoma, verticalmente integrata e con una diversificazione ampia delle fonti di approvvigionamento. Tra il 2012 e il 2020 l’Italia ha raddoppiato le importazioni di coils e dimezzato la produzione. La causa di quanto accaduto è stata la caduta della produzione di Ilva e le incertezze che hanno caratterizzato questo lungo periodo. E, di nuovo, questo dimostra la delicatezza e la problematicità di affidarsi alle importazioni dall’estero per un settore strategico come l’acciaio. Noi abbiamo bisogno di un’industria siderurgica che garantisca i fabbisogni dell’Italia senza essere esposta alle incertezze internazionali. Acciaierie d’Italia- secondo il suo Presidente- non è un’azienda decotta, ha un grande potenziale, soprattutto di integrazione a valle. La cosa che più mi turba è vedere un potenziale di queste dimensioni che non può essere sfruttato appieno nell’interesse del Paese. Se Acciaierie d’Italia potesse esplicitare tutto il suo potenziale, anche in termini di verticalizzazione delle produzioni, il problema occupazionale sarebbe risolvibile. Il management, guidato da Lucia Morselli, ci mette tutto l’impegno, ma i margini di azione sono condizionati da una situazione che non ha precedenti in nessun altro contesto industriale» riferendosi ovviamente alle ingerenze della magistratura, e all’ostracismo dei partiti politici che bloccano ogni tentativo di ripresa a ogni campagna elettorale. E se due anni fa erano state le regionali a bloccare il riavvio del piano per non rischiare di rovinare la rielezione di Emiliano, ora sono le amministrative bloccate dal sindaco uscente che chiede chiusura area a caldo spalleggiato dal pd alleato in città con i 5 stelle del vice di Conte il tarantino Mario Turco.
E’ per questo che anche se confermato dall’azienda due giorni fa, i lavori per il riavvio di afo5 e del nuovo forno elettrico ancora non vedono la luce. Dovevano essere partiti già nel 2021, dopodiché ci vorranno almeno tre anni. Senza questi due impianti, con lo spegnimento graduale per fine vita degli altri due altoforni, Ilva rimarrebbe al 2025 con un solo impianto da meno di duemilioni di tonnellate.
Il Presidente Bernabè non nasconde che questo ritardo sia dovuto anche a difficoltà economiche: “Quando le acciaierie erano integrate in ArcelorMittal, il finanziamento del circolante avveniva con il sistema di tesoreria centralizzata del gruppo. Nel momento in cui, con l’ingresso dello Stato, le acciaierie sono diventate autonome da ArcelorMittal hanno dovuto cercare autonome fonti di finanziamento del capitale circolante: nella situazione in cui si trovano, con gli impianti sequestrati e una situazione di incertezza sulle prospettive della società, è chiaro che le banche sono prudenti. Il primo segno di allentamento di questa tensione è un finanziamento con Morgan Stanley che ci dà respiro sul circolante: è il primo finanziamento interamente privato, un ottimo segno. Prima dell’ingresso dello Stato, ArcelorMittal aveva la responsabilità degli investimenti e li ha fatti. Il gruppo ha investito 1,8 miliardo su Taranto. Oggi lo Stato è al 50% per quanto riguarda la governance ed è tutto più complesso, come sempre succede quando due azionisti devono negoziare per trovare un accordo. Ma vedo da parte di entrambi la volontà di investire”.
Ciò che manca dunque è solo la volontà politica.
Quando due anni fa Conte decise di stralciare il piano Calenda e nazionalizzare l’azienda, sapeva che oltre il miliardo per l’ingresso in società, ne servivano altri 4 dello Stato per il piano industriale. Quelli che ora ArcelorMittal è andata ad investire a Fos Sur Mer, con grande accoglienza del governo francese. E mentre le acciaierie fanno utili in tutto il mondo, Ilva è l’unica in perdita perché i partiti in campagna elettorale hanno deciso di tenerla a mezzo servizio, e di conseguenza non ha più liquidità per comprare materie prime. Quei 575 milioni servivano come garanzia per le banche; ma chi tra finanziatori e clienti può dare credito a un’azienda pubblica a cui non dà fiducia neppure il parlamento che è maggiore azionista?
Per questo non si lascia prendere in giro Rocco Palombella: “Spieghino come intendono aumentare la produzione senza capitale circolante. Il piano industriale di Acciaierie d’Italia non esiste: la cassa integrazione straordinaria si ottiene solo a fronte di un piano industriale e l’azienda dice di voler riavviare l’altoforno 5 solo per ottenere la Cigs per tremila lavoratori fino al 2025, senza peraltro garantirne il rientro. Mentono. Non hanno applicato il piano industriale del 2018 e fanno finta di presentarne uno nuovo. Spieghino perché il piano industriale del 2018 fissava una produzione di 6 milioni di tonnellate con 10.700 addetti e adesso, che gli addetti sono scesi a 10.150, ci dicono che per produrre 6 milioni di tonnellate devono mettere tremila lavoratori in cassa integrazione”.
Questo infatti resta un mistero. I sindacati infatti non vollero firmare il contratto con Calenda a fine mandato, preferendo aspettare il nuovo governo. Quello poi raggiunto con la mediazione di Dimaio offrì sulla carta più occupazione, ma appunto non è mai stato rispettato, con la cassa integrazione partita pochi mesi dopo dalla firma.