In fuga da Undertaker, la recensione

In fuga da Undertaker, la recensioneIn fuga da Undertaker

No, non è esattamente Bandersnatch, il film interattivo di Black Mirror, uscito sempre su Netflix ormai tre anni fa. Ma In fuga da Undertaker (in originale Escape the Undertaker), con ogni probabilità, non voleva esserlo. La struttura è essenzialmente la stessa, quella cioè di una storia a bivi, da librogame: in determinati punti della storia è lo spettatore a scegliere cosa fare o dove andare per conto del protagonista. In questo caso, dei protagonisti. Prodotto dai WWE Studios, In fuga da Undertaker è incentrato infatti su una storia appropriatamente folle, da antefatto di un match di wrestling. I New Day sono una stable, cioè un gruppo di wrestler, noti per la loro positività: l’esatto opposto di un ex campione del ring ormai in pensione, il celebre Undertaker, il becchino. I tre (Kofi Kingston, Xavier Woods e Big E) vogliono impossessarsi della celebre urna-feticcio di ‘Taker. Quest’ultimo vuole invece risucchiare proprio all’interno dell’urna le anime dei tre casinisti, e perciò li lascia entrare nella sua casa e li sorveglia attraverso un sistema di telecamere.

In fuga da Undertaker

YOU CAN’T HIDE… FROM THE DEADMAN

Quel che segue, in una mezz’oretta in tutto di visione, è un canovaccio alla Resident Evil, con la magione piena di trappole, simboli da abbinare a chiavi e, ovviamente, uno scontro finale con Undertaker, che cercherà di impedire la fuga dei New Day ricorrendo ai suoi poteri. Strafulminandoli, in pratica. Pur essendo presentato come un mediometraggio interattivo di Halloween per famiglie, è bene chiarire che il tono non è esattamente adatto ai bambini piccoli. C’è solo un quarto interprete nel film, per dire, ed è un cadavere. In fuga da Undertaker, questo sì, è un qualcosa perfettamente in linea con le storyline della WWE, con quel tipo di umorismo e di trovate improbabilissime che i fan adorano. Esattamente come adoreranno la comparsata, attraverso vari filmati di repertorio, di una figura che tanti continuano ad associare ad Undertaker: il suo manager storico, Paul Bearer (che è scomparso nel 2013).

In fuga da Undertaker

PERÒ NON È BANDERSNATCH, DICEVAMO…

No, non lo è. E non solo perché dura un terzo. Nello special interattivo di Black Mirror, la storia prendeva effettivamente una piega diversa a seconda delle scelte dello spettatore/giocatore (ed essendo il tutto legato a un videogame, aveva ancora più senso). Ci si poteva allontanare anche tantissimo da un binario all’altro, e più lo si rigiocava più si scoprivano cose nuove e possibili finali. In fuga da Undertaker imbocca invece un binario, a livello di trama, e lo segue fino in fondo. Se la primissima scelta è obbligata (perché con l’altra opzione ci si trova davanti a dei titoli di coda ironici…), tutte le altre permettono di seguire uno dei New Day quando i tre si separano, ma sostanzialmente poi tutto imbocca nuovamente lo stesso percorso predefinito.

C’è un po’ più di varietà nella parte finale, perché le scelte – legate alle paure dei tre allegroni – si moltiplicano e c’è perfino un potenziale turn heel, ma in buona sostanza la storia è sempre la stessa. Cambia semplicemente il punto di vista con cui ne vengono raccontati alcuni pezzi, quando decidi di seguire Kofi, Big E o Woods. Occhio solo alla faccenda della fiala, perché quella è realmente importante per accedere al vero finale.

In fuga da Undertaker

PICCOLI BRIVIDI CRINGE

Come esperimento, resta comunque interessante, a prescindere dal risultato. E ok, ma ne vale la pena? Merita una mezz’ora della vostra vita? Se siete o siete stati negli ultimi trent’anni dei fan del wrestling, assolutamente sì. I valori di produzione sono quelli di una puntata di Un posto al sole, gli interni della villa di ‘Taker sono in diversi momenti da recita scolastica, e tra un effetto speciale brutto e l’altro si respira un’atmosfera da Z-movie anni 90 che vorrebbe esser simpatico ma non ci riesce fino in fondo. Cioè, ESATTAMENTE, da scenette per costruire un angle o una faida prima di un main event in WWE. E sì, se conoscete il significato di tutte le parole usate nell’ultima frase, fate parte del club e quella mezz’oretta potete buttarcela con tutta tranquillità.

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