mercoledì, 27 Novembre 2024
In Kosovo e Serbia c’è un traffico d’armi senza precedenti
La storia insegna che raramente i confini tracciati dalle guerre per procura portano a pace duratura. Soprattutto se dividono, sulla carta, popolazioni che da secoli si odiano, come in Kosovo, ufficialmente protettorato Onu riconosciuto dalla Ue. Se poi poco lontano c’è una guerra in atto e l’invasore è tra le nazioni che più sono vicine agli attori di un equilibrio precario, come la Russia con la Serbia, allora i presupposti per accelerare certe vedette ci sono tutti. Intanto perché Belgrado, ma anche Mosca e Pechino, non riconoscono l’indipendenza del Kosovo e quindi neanche il suo ministero dei Trasporti, come in queste ore dimostrano i disordini per le limitazioni della circolazione imposti alle frontiere da Pristina nei confronti degli automobilisti serbi con targa kosovara. A poco vale che il governo del Kosovo abbia deciso di posticipare a settembre l’entrata in vigore delle misure riguardanti la minoranza serba, perché la zona, fin da prima della dissoluzione della Jugoslavia, è il crocevia perfetto per trafficare armi. Quale migliore scusa per Putin per correre in aiuto dei serbi kosovari.
Si stima che al momento nel protettorato ci siano quasi 450.000 mitra in mano ai civili e che esistano magazzini segreti di munizioni, non controllate dalle truppe Kfor (a maggioranza italiana), custodite dagli albanesi kosovari, esattamente come dai serbi nei loro confini. La Serbia, meno di sette milioni di abitanti, ha un esercito di 25.000 professionisti e 50.000 riservisti addestrati, cioè una persona su 93 sa combattere davvero. La miccia accesa ieri per la questione delle targhe rende l’idea del livello di tensione, finora sfociata in blocchi stradali, colpi di mitra esplosi contro le forze di Polizia e alcuni passanti di origine albanese che sono stati aggrediti. Qualcuno ha anche pensato bene di far suonare le sirene per l’allarme antiaereo nella zona di North Mitrovica, e questo ha amplificato il terrore nella popolazione. I manifestanti hanno usato camion pieni di materiali inerti per sbarrare le strade che portano ai confini con la Serbia di Jarinje e Bernjak, tanto che la forza internazionale della Nato Kfor ha dichiarato in un comunicato di stare monitorando una situazione estremamente tesa ed essere pronta a intervenire. Il premier kosovaro Albin Kurti ha parlato di fuorilegge serbi che hanno sparato contro la polizia di Mitrovica, mentre il presidente serbo Alexandar Vucic ha soffiato sul fuoco ricordando che: “Oggi la Serbia non è un Paese che si può sconfiggere facilmente come ai tempi di Milosevic”. Come dire “Siamo pronti.”
Un sospetto diventa certezza: c’è chi potrebbe trarre vantaggio dal seminare zizzania tra serbi e kosovari per destabilizzare un equilibrio precario e riprendersi la regione sfruttando la guerra russo-ucraina. Sempre a proposito di armi, lunedì 25 luglio il quotidiano greco Kathimerini riportava che l’ambasciatore greco a Belgrado avrebbe sporto una formale protesta alle autorità serbe dopo che un aereo da trasporto Antonov An-12 con marche ucraine che trasportava una dozzina di tonnellate di munizioni serbe, apparentemente verso il Bangladesh, si è schiantato vicino alla città di Kavala (Grecia) domenica 24 luglio. Secondo il diplomatico Atene avrebbe dovuto essere informata sul transito di quell’Antonov per scortarlo verso sudest e scongiurare che il proprio spazio aereo venisse usato per portare munizioni non autorizzate verso il territorio ucraino, perché proprio quella era la nazionalità degli otto occupanti del velivolo, tutti morti. L’aereo era decollato dall’aeroporto di Nis, in Serbia, verso Dhaka, in Bangladesh, con scali intermedi previsti in Giordania e Arabia Saudita. Pare che il pilota abbia informato i controllori greci a proposito di un incendio a uno dei motori chiedendo di poter atterrare a Kavala, ma poco dopo i radar lo hanno perso. La società serba di armi e sistemi di difesa Valir, responsabile del carico, aveva informato i greci che l’Antonov trasportava proiettili per il solo addestramento, per mortai M62 da 60 e 82 mm e razzi di mortaio M67 da 82 mm. Insomma, non proprio rivoltelle usate. Da qui l’accusa alla Serbia di favorire il trasporto di armi in Ucraina, fato che seppure smentito categoricamente dal ministro della Difesa serbo Nebojsa Stefanovic, il quale ha affermato che il volo era autorizzato e che l’unico legame con Kiev è il fatto che la compagnia aerea Meridian, proprietaria dell’aereo, è ucraina. Denis Bogdanovich, direttore di Meridian, si era affrettato a dichiarare all’agenzia Reuters che l’evento “Non è correlato alla guerra” ed è vero che l’aereo in questione aveva 50 anni e che soltanto a luglio ne sono caduti tre, seppure appartenenti a tre compagnie cargo diverse. Ma le inchieste sull’accaduto sono ancora in fase iniziale.
Che su quell’aereo ci fossero munizioni era noto, ciò che non si comprende quindi è perché la Comunità Europea, pur avendo chiuso i propri spazi aerei agli aeromobili russi, lasci volare vecchi catorci purché ucraini, dalla Serbia fin nel suo spazio aereo (quello greco in questo caso), pieni di esplosivi e soprattutto legati a trafficanti come Slobodan Tesic, personaggio già ben noto agli Usa per le sue esportazioni di materiale bellico verso la Libia. Insomma, sfruttando le marche ucraine degli aerei, Belgrado avrebbe mano libera nel traffico d’armi. A ben guardare nella ex Jugoslavia avevamo lasciato che i croati affrontassero i serbi, poi che lo facessero i kosovari. Ora il gioco è cambiato ed è facile intuire che cosa accadrebbe se la Russia appoggiasse una reazione serba nel Kosovo: la Nato (ma soprattutto i militari italiani della Kfor dell’Onu), si troverebbero a contatto con truppe serbo-russe e non si potrebbe più fare finta di non essere in guerra con la Russia. Ecco allora una domanda alla quale la politica deve dare risposta: per quanto tempo la Ue manderà armi a Kiev per combattere “fino all’ultimo ucraino”, di fatto favorendo un mercato d’armi internazionale?