martedì, 26 Novembre 2024
Iran-Arabia Saudita: nuova guerra in arrivo?
L’intervento esterno dell’Iran nel conflitto russo-ucraino ha riportato Teheran al centro delle questioni securitarie internazionali. I suoi «droni kamikaze» fuoriusciti dalle fabbriche persiane e pronti da essere spediti alla logistica di Mosca, dimostrano alcune cose. Primo: che l’Iran è il principale (e quasi unico) alleato della Russia. Secondo: che Teheran persegue i propri obiettivi geopolitici, non curandosi affatto delle sempre più diffuse proteste interne. Terzo: che il valore di questi armamenti è superiore alle previsioni, e che i modelli di ultima generazione funzionano piuttosto bene. Quarto: che, in ragione di ciò, i suoi nemici temono la Repubblica Islamica come e forse più di prima.
Se fino a ieri a preoccuparsi dell’impiego di droni militari erano soprattutto gli israeliani – «quei velivoli impiegati in Ucraina rappresentano un test per poi colpire Israele» avevano affermato fonti della sicurezza di Gerusalemme – oggi lo è anche l’Arabia Saudita, baluardo della corrente dell’Islam sunnita nel mondo e arcinemico degli Ayatollah sciiti. I due Paesi, rivali nella fede ma soprattutto nelle mire per il predominio della regione, hanno già importanti precedenti che li vedono su opposti fronti della guerra: a cominciare dal conflitto in Yemen, dove Riad e Teheran combattono per procura, sostenendo le opposte fazioni in lotta per il potere.
Riad, alleato chiave degli Stati Uniti in Medio Oriente, ha appena condiviso con Washington «importanti informazioni di intelligence» secondo le quali addirittura sarebbe «imminente» un attacco dell’Iran condotto direttamente contro la penisola saudita. A riferirlo (visto che i servizi segreti non emettono certo comunicati stampa) sarebbero stati dei funzionari sauditi, che avrebbero parlato come fonti anonime al Wall Street Journal.
Il timore è che si ripeta in scala maggiore quanto avvenne nel settembre del 2019, quando proprio un attacco di «droni kamikaze» ad Abqaiq, nel più grande impianto petrolifero al mondo – proprietà della Aramco, la compagnia nazionale saudita – inflisse pesantissimi danni alla produzione del greggio, con gravi ripercussioni sui mercati energetici globali.
Questo nuovo allarme ha fatto scattare l’allerta in tutto il regno. Ma Israele, consapevole del progetto degli ayatollah di «cancellare lo Stato Ebraico dalla faccia della Terra», si è spinto oltre ed è passato già all’azione: a partire dal 21 ottobre ripetuti raid aerei delle forze aeree israeliane hanno colpito obiettivi iraniani in Siria, attorno alla capitale Damasco. Là si trovano le fabbriche degli Shahed-136, proprio quei velivoli a pilotaggio remoto prodotti dalla Iran Aircraft Manufacturing Industrial Company (azienda sottoposta alle sanzioni statunitensi) che hanno la caratteristica di esplodere all’impatto con il bersaglio.
Il premier uscente dello Stato Ebraico, Yair Lapid, nelle scorse settimane si era detto preoccupato della «vicinanza pericolosa» tra Mosca e Teheran, sottolineando che il suo Paese avrebbe agito di conseguenza. Così è stato. Inoltre, Israele ha incrementato il suo supporto all’Ucraina, fornendo preziose informazioni d’intelligence utili a neutralizzare gli attacchi dei «droni kamikaze» e continuando a colpire ora le fabbriche al di fuori del territorio iraniano per rallentarne la produzione, ora i convogli di armi iraniane dirette verso Russia e Bielorussia (da dove sono partiti molti degli attacchi di droni delle ultime settimane).
Secondo le informazioni della Difesa ucraina, peraltro, sarebbero già in viaggio altri 200 droni iraniani da combattimento: oltre agli Shahed-136, anche i Mohajer-6 e Arash-2 che «verranno consegnati attraverso il Mar Caspio al porto di Astrakhan».
Il presidente Zelensky, dopo un’iniziale schermaglia per lo scarso aiuto da parte di Gerusalemme (alleato della Russia in alcuni quadranti geopolitici), ha ora corretto il tiro confermando l’inizio di una più profonda collaborazione tra l’intelligence israeliana e quella ucraina per fronteggiare la minaccia delle nuove armi iraniane in mano a Mosca, cui si devono peraltro sommare ingenti quantitativi di missili balistici in arrivo dalla Persia. L’Ucraina oggi non dispone dei mezzi per difendersi dai missili balistici che l’Iran starebbe per fornire alla Russia, e dunque al Pentagono si studia la risposta eventuale, così come A Gerusalemme valutano la condivisione di sistemi di difesa missilistica (di cui però gli israeliani sono sempre stati molto gelosi).
Questo cambio di rotta rispetto alla volontà di Israele di restare neutrale di fronte all’invasione russa dell’Ucraina è piuttosto significativo: sia perché rivela come anche nel quadrante mediorientale la temperatura si stia innalzando, con il rischio concreto di un riaccendersi del conflitto nella regione; sia per la consapevolezza che sono già presenti in Crimea personale militare e istruttori iraniani, per insegnare ai soldati russi come pilotare i droni negli attacchi (in molti casi, parteciperebbero direttamente ai bombardamenti) e come lanciare efficacemente i missili balistici in arrivo.
Secondo fonti occidentali, a gestire le operazioni ci sarebbero squadre appartenenti ai Guardiani della rivoluzione: la forza paramilitare separata alle Forze armate iraniane, che si occupa di operazioni clandestine all’estero ed è particolarmente apprezzata dalla Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei (sebbene i cosiddetti Pasdaran rappresentino un duopolio nell’esercizio del potere e nell’uso della forza rispetto al clero sciita).
Sul futuro prossimo del leader iraniano e del Paese stesso pesano dunque la storia, la cultura islamica e soprattutto le istituzioni al vertice del governo. Con il loro strapotere, infatti, tali soggetti hanno trasformato questo grande Paese in una teocrazia armata e aggressiva, che cerca una fase espansiva per celare la debolezza delle politiche economiche e sociali interne.
Se da un lato i sogni egemonici di Khamenei vorrebbero fare di Teheran
un dominus del Medio Oriente, dall’altro la realtà odierna fotografa un’amministrazione troppo sbilanciata in una sfida epocale che, all’esterno vede l’Iran pesantemente coinvolto in Iraq, in Siria e in Yemen, e per questo in frizione con Arabia Saudita e Turchia. Contemporaneamente, al suo interno
è attraversato da tensioni economiche – leggi embargo – e agitazioni sociali
non indifferenti, con annessi diritti umani calpestati e problemi sia sanitari che di ordine pubblico. Un rumore di fondo cui si sommano inevitabilmente la guerra sempre meno fredda con lo Stato di Israele e l’annosa questione dell’arma nucleare.
Archiviata la minaccia nucleare imminente, lo Stato di Israele con la probabile rielezione di Benjamin Netanyahu vorrà quasi certament ripristinare una politica aggressiva nei confronti di Teheran, che potrebbe comportare il riaccendersi di un nuovo conflitto. Questo vedrebbe anche la partecipazione saudita nello stesso campo di gioco, in ossequio ai migliorati rapporti tra Riad e Gerusalemme, e in ordine all’esigenza di entrambi di ridimensionare il pericolo iraniano. Tanto Israele quanto l’Arabia Saudita immaginano infatti un risiko regionale dove il competitor iraniano non possa più fomentare azioni di forza contro i nemici giurati, foraggiare milizie irregolari e produrre armi letali.
Difficilmente l’Arabia Saudita prenderà un’iniziativa diretta contro l’Iran, consapevole della sua debolezza intrinseca e dello scarso livello delle sue forze armate; mentre Israele – fatti i dovuti distinguo – si trova a sua volta nella condizione del Davide contro Golia. A conti fatti, però, il finale non è scritto e la potenza di fuoco iraniana non garantisce a Teheran la certezza di prevalere. Al punto che aprire un fronte mediorientale potrebbe segnare la fine prematura del regime degli Ayatollah.