lunedì, 25 Novembre 2024
La Calabria brucia tra l’indifferenza dei calabresi
Un inferno di fuoco ha ridotto in cenere più di 11mila ettari di territorio boschivo in Calabria, oltre un terzo dei quali nella sola area dell’Aspromonte. Un’emergenza senza precedenti che ha spinto il premier in persona ad inviare a Reggio Calabria e Catanzaro il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio. Ma il fuoco, questa volta non ha ridotto in cenere soltanto una parte dell’immenso patrimonio boschivo della regione: questa volta le fiamme sono arrivate sin dentro i comuni, costringendo centinaia di impauriti cittadini ad abbandonare precipitosamente le proprie abitazioni, i propri affetti, i propri averi. Bussando alle porte delle coscienze dei calabresi, quasi a scuoterli da un inspiegabile “sonno della ragione”. Senza dimenticare le quattro vittime di questo ennesimo attacco al cuore verde della Calabria.
• Francesco Bevilacqua: «La Calabria brucia per l’indifferenza di noi calabresi».
• Mauro Francesco Minervino: «La Calabria brucia, va a fuoco in tutti i sensi».
Nel cuore dell’Aspromonte, proprio al fotofinish, si è riusciti a salvare la Faggeta Vetusta inserita dal Comitato del Patrimonio Mondiale svoltosi a fine luglio a Fuzhou, in Cina, tra le “Antiche Faggete Primordiali dei Carpazi e di altre regioni d’Europa”, bene seriale transnazionale iscritto nel Patrimonio Mondiale Unesco, verso cui le fiamme stavano dirigendosi paurosamente. E mentre gli investigatori non hanno dubbi su come dietro gli incendi si celi una vera e propria strategia criminale, tesi difficile da confutare in una regione in cui la ‘ndrangheta è arrivata a controllare la vita del territorio, Panorama.it ha cercato di capire l’inferno di fuoco che si è abbattuto su alcune aree della regione, chiedendo aiuto a due intellettuali impegnati da sempre nella protezione del delicato paesaggio calabrese.
Francesco Bevilacqua ama definirsi “cercatore di luoghi perduti”. Quando gli chiediamo cosa faccia nella vita, risponde secco: «curo una malattia epidemica in Calabria, l’amnesia dei luoghi, provo a risvegliare i calabresi dallo stato di coma topografico in cui versano. Pratico una terapia che chiamo oikofilia, ossia amore per la propria casa, la terra, il paese. Lo faccio con metodi naturali: libri, foto, filmati, narrazioni. Descrivo il mio modo di viaggiare come «viaggiar restando» che è una delle tante coniugazioni possibili di un verbo fin troppo abusato, una forma di stanzialità (in Calabria) errante (peregrinare in cerca dell’ignoto o del non più noto), una sorta di travaso tra l’anima dell’uomo e l’anima dei luoghi. I miei mezzi prediletti sono le gambe e l’istinto, affinati dalla frequentazione ultra quarantennale di monti e valli e dallo studio altrettanto lungo di carte topografiche, scritti sul paesaggio, narrativa legata ai luoghi, diari di viaggio».
Avvocato civilista ed amministrativista di professione, camminatore, scrittore, giornalista e fotografo naturalista per passione, Francesco Bevilacqua è stato ed è attivo nel volontariato ambientalista con le maggiori associazioni del settore, come Fai, Cai, Wwf e Italia Nostra: ma la sua vera passione è vagabondare e sperdersi, con le gambe e con la mente, per monti e valli della Calabria, dove sono le sue radici e, prima o poi, assumerà le sembianze di un albero, fermandosi nel luogo che, dopo tanto errare, sarà la sua ultima e definitiva dimora. Al telefono, dalla sua Lamezia Terme, è un fiume in piena.
Bevilacqua, si è messo in testa di fermare le fiamme con i libri? «In fondo è la mia mission terrena, ribadita con la mia più recente pubblicazione, “Turbare una stella. Spirito e materia. Storie e cammini” (Rubbettino, 2020): dopo venti libri, quattordici dedicati all’esplorazione e alla scoperta del paesaggio calabrese ed alla loro percezione in narratori e viaggiatori, ora è il tempo della riflessione ontologica».
C’è un’immagine-simbolo di questi giorni infernali?«E’ quella che mi si è materializzata, appena qualche giorno addietro, lungo la strada di crinale del Monte Reventino, la mia “montagna di casa”, che sovrasta l’abitato di Lamezia Terme: nell’atmosfera nebbiosa e surriscaldata, ai lati di quel che resta del bosco, mi aveva colpito un bagliore color rubino sul nero del legno carbonizzato. Blocco l’auto e scendo per osservare meglio: un alto pino stava bruciando a mezza altezza. Il fuoco si era ricavato una nicchia nel cuore del fusto resinoso, quasi a prosciugarne la linfa, a disintegrarne la carne, a bruciarne l’anima dell’albero».
Scena da apocalissi interiore. «Con un gesto di pura pietà, la squadra anti-incendio che era con noi, iniziava a pompare dell’acqua in quella cavità ardente, come per ricomporre una salma prima che venisse esposta al pianto dei congiunti. Intanto un intenso fumo nero stava sprigionandosi dalla ferita che sfrigolava: era uno dei tanti alberi che uomini e donne dei paesi alle falde del Reventino avevano piantato negli anni Cinquanta del Novecento per risanare le piaghe che l’uomo aveva inferto alla montagna nei secoli».
L’Aspromonte ha riportato ferite difficilmente rimarginabili.
«Abbiamo rischiato di perdere per sempre i giganteschi pini di Acatti, i faggi e le querce pluricentenarie della Valle Infernale: quelle foreste hanno rappresentato per me, da sempre, le più maestose comunità arboree dell’intera Calabria, più dei pini loricati del Pollino, più dei pini larici della Sila, più degli abeti bianchi delle Serre. Erano le nostre sequoie, i nostri dei incarnati. Voglio credere che la loro imponenza, la loro altezza, la loro forza si siano fatte beffe delle fiamme, li abbiano salvati. Il cuore mi dice che li rivedrò, un po’ anneriti forse, ma vivi».
Ce lo dica sinceramente: la Calabria non ne esce proprio a testa alta!
«Un brutto sogno ha accompagnato queste mie notti agostane. Assistevo ad un Consiglio dei ministri in cui si diceva: «i calabresi incendiano la Calabria? E noi lasciamoli fare. Così imparano!». Che non sarebbe poi tanto sbagliato, se non fosse che un governo – statale o locale che sia – ha l’onere di proteggere, comunque, i territori ed i cittadini, per quanto questi ultimi non lo meritino. Sono così duro perché non c’è dubbio che la Calabria la stiamo bruciando noi calabresi. Non tutti ovviamente…».
Chi sono i calabresi cattivi?
«Beh, quelli che giocano a fare i contadini e i pastori, avendo dimenticato gli antichi saperi di entrambe le categorie, e che credono di poter scherzare impunemente col fuoco: “pulisco un poco”, e giù con l’accendino; “ho tutto sotto controllo”, e poi una folata di vento e l’incendio parte. E calabresi sono i piromani che appiccano fuoco per una forma di psicopatia o solo come ritorsione verso un vicino, un’amministrazione, un parco, una categoria di persone, il governo, il mondo intero».
Vada oltre: la mafia dei boschi conta ancora…
«Non crederò a tutte le altre ipotesi – pur legittime – di grandi congiure di ‘ndrangheta, società private appaltatrici del soccorso aereo, centrali a biomasse sino a che un procuratore non avrà portato a termine un’inchiesta. Credo invece a quel che vedo: due giorni fa, mentre al mattino presto salivo verso il Reventino incendiato, nell’apocalisse di fumo che ricopriva l’abitato di Platanìa, un signore che decespugliava nella sua proprietà, aveva un bel fuoco acceso che, a suo dire, teneva sotto controllo: ho dovuto mandargli i carabinieri».
Un duro attacco ai suoi corregionali.
«E’ con noi stessi che dobbiamo prendercela: quando mai ci siamo sentiti davvero custodi dei nostri territori, dei paesaggi, delle bellezze naturali? Sfregiamo ogni giorno il bello della Calabria come degli stalker, come degli stupratori. Quando mai abbiamo sorvegliato (parlo della grande maggioranza dei calabresi) sugli sfregi quotidiani alla nostra terra? La verità è che siamo drammaticamente indifferenti: «Odio gli indifferenti – scriveva Antonio Gramsci – credo che vivere voglia dire essere partigiani».
Le sue battaglie ideali sono ben note dalle sue parti.«Ho visto migliaia di calabresi indifferenti nient’affatto partigiani, stesi a prendere il sole sulle spiagge della Calabria falsa e posticcia, mentre alle loro spalle la Calabria vera, quella della Storia, andava in fumo. Ho visto migliaia di idioti impilare legna nei falò di San Lorenzo e spingere nel cielo le lanterne infuocate mentre sulle cime delle montagne le fiamme volavano alte e sinistre».
Forse avevano ragione nel Consiglio dei ministri del suo sogno…
«…a lasciarci bruciare, senza soccorsi aerei, senza Esercito. L’indifferenza è una malattia cattiva e stupida. Ci vogliono cure da cavallo per eradicarla da un corpo sociale. Non è mai stato inventato un vaccino. È una malattia endemica, un’epidemia infinita, in Calabria. Determinata da secoli di soprusi e di lotte impari, certo. Ma ora siamo adulti, con entrambi i piedi nella post-modernità, senza più alibi. Appena passata l’apocalisse, ci sarà un altro fuoco, più grande e difficile da placare: quello della nostra indifferenza».
A proposito di politica: fra poco tornerete alle urne in Calabria.
«Racconto due episodi paradossali dell’attuale scenario politico regionale. Gianluca Gallo è l’assessore regionale all’agricoltura con delega anche alla forestazione, da cui dipende l’ente sub regionale “Calabria Verde” che ha eredidato la gestione delle foreste demaniali della Calabria e gli operai forestali con le relative squadre anti-incendio. E sempre Calabria Verde dovrebbe fornire i Dos, direttori delle operazioni di spegnimento, che, si presume, debbano conoscere i luoghi».
Vada al dunque!
«E invece cosa fa quest’assessore? In piena crisi incendiaria, con la fauna selvatica decimata e costretta a fuggire dalle vaste zone incendiate, fa convocare la giunta regionale dal presidente facente funzioni Antonino Spirlì, e l’11 di agosto (!) propone ed ottiene l’approvazione del famigerato calendario venatorio della Regione Calabria (spesso annullato dal TAR per le tante illegittimità che contiene), con il quale anticipa l’apertura della caccia al 1° settembre. Da non crederci».
E il secondo episodio?
«Riguarda proprio Antonio Spirlì, il pittoresco presidente facente funzioni della Calabria. Anche lui dovrebbe dirci qualcosa sugli incendi visto che ha la delega alla protezione civile, altro settore fortemente coinvolto nella gestione degli incendi. E che fa Spirlì mentre l’Aspromonte brucia? Va a San Luca, il comune più martoriato, non per raggiungere le squadre dei soccorritori per incoraggiarli e ringraziarli, ma per inaugurare una mostra fotografica. Ecco, questo è il quadro desolante della “testa” dell’iceberg. Attendiamo che la magistratura riporti a galla l’intera isola di ghiaccio ancora celata negli abissi».
Risalendo la costa tirrenica calabrese, Panorama.it fa tappa a Paola: nella città del Santo patrono della Calabria e delle genti di mare, raggiunge Mauro Francesco Minervino, ordinario di Antropologia culturale ed etnologia all’Accademia delle Belle Arti di Catanzaro. Già notista culturale per molti organi di stampa nazionali, e, soprattutto, autore di saggi fondamentali per ricostruire l’antropologia calabrese contemporanea: da “In fondo a Sud” (Philobiblon Edizioni, Ventimiglia 2006) grazie al quale si guadagnò la prefazione di Marc Augè, a “Ritorno a San Luca. Dal paese dei sequestri alla strage di Duisburg. 1990-2007” (Abramo, Catanzaro 2008), da “Calabria sublime” (Rubbettino, Soveria Mannelli 2005) in cui senza mezzi termini descriveva il «grande suburbio disperso e immiserito, concresciuto in mezzo ad un brutto-brutto che ha invaso la terra del Mito», a “Statale 18” (Fandango, 2010), amare riflessioni su quella «strada che ha visto trasformarsi il paesaggio e la vita della Calabria tirrenica in quella frangia continua e disordinata di cemento e asfalto che oggi vede lo scempio macrofisico e microfisico del fai da te della speculazione immobiliare e dell’abusivismo saldamente in mano a mafie e privati».
Professore Minervino, la “peggio Calabria” riemerge con gli incendi di agosto.
«Confesso che ancor oggi, dopo tre decenni di fitta ricerca antropologica, mi risulta difficile spiegare la Calabria. E gli incendi di questi giorni, al di là di qualche isolato caso di autocombustione dovuto alle temperature registrate, mi trasmettono un senso di grande sconforto».
Citiamo Corrado Alvaro?
«E’ imprescindibile il sommo poeta e giornalista di San Luca. “Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione”. Un incipit datato 1925, è il filo rosso anche in queste amare riflessioni ferragostane, durante le quali al caldo che brucia i polmoni, all’aria plumbea ed al cielo basso striato da una nuvola brunastra sospesa a mezz’aria, si accompagna una cappa uniforme di fumo che avvolge questa regione come un sudario di fuoco. E in giro si sente odore di cenere, quell’acre sensazione di bruciato che lasciano i roghi degli incendi appiccati un pò dovunque. Un girone infernale…».
Professore, nel 2008 lei fu terribilmente visionario. E ovviamente inascoltato…
«Si riferisce al saggio “La Calabria brucia” ed alla potente prefazione che il paesologo Franco Arminio intese affidarmi. Lo scrissi a chiare lettere tredici anni addietro e lo sottolineo ancor oggi: non bastano i Canadair, le coraggiose squadre di Vigili del fuoco e gli interventi della Protezione civile, tutti assolutamente encomiabili, a mettere fine a questo scempio di roghi incontrollati che arroventano e arrostiscono l’estate dei calabresi e dei turisti che ancora continuano a scegliere i suoi ottocento chilometri di costa e le sue montagne».
La sua è una denuncia pubblica. Si spieghi.
«La Calabria che sono costretto a continuare a narrare è quella di un mondo democraticamente caduto nella follia dei roghi e dell’olocausto incurante di boschi e foreste: si bruciano i boschi secolari sul Pollino, in Sila e in Aspromonte, ovvero nel bel mezzo di tre Parchi nazionali, come effetto di una democrazia senza qualità, degenerata di “oclocrazia”, intesa come governo caotico di una massa disordinata e priva di regole. Si bruciano i boschi come puto annichilimento di risorse preziose senza speranze di rigenerazione. Una prova della stupidità umana che qui, in Calabria -e lo sottolineo forte- ha in testa responsabilità politiche e sociali».
Una denuncia forte alla vigilia delle elezioni regionali…
«E quando se no? Anche perché, nel prossimo inverno, noi in Calabria pagheremo con le frane e le alluvioni ciò che il fuoco sta distruggendo quest’estate, con tutto il seguito dissimulato e peloso di pretese e lamentazioni rituali. La pianificazione del territorio in questa regione è una piaga».
Lei sostiene, apertamente, che si incendia perché poi si potranno dare il via a nuove costruzioni?
«In parte è così. L’obiettivo ormai è di costruire dappertutto, non c’è più la campagna, il sacco del territorio favorisce l’espansione cementizia senza limiti. Il paesaggio è abusato, la bellezza dei luoghi stuprata di continuo. La più grande risorsa pubblica di questa regione, la terra, nelle sue varianti di campagna-collina-montagna, viene continuamente cancellata e immiserita in nome della speculazione continua e degli scambi incrociati del consenso».
Regia occulta, quella dei roghi?
«Il sospetto di un tempo è oggi la certezza oltre ogni ragionevole dubbio. Tre lustri fa la mia sarebbe stata, forse, una domanda retorica. Oggi siamo nel campo delle certezze, come dimostrato dai numerosi inneschi rinvenuti, nelle scorse ore, nei luoghi interessati dagli incendi. C’è una regia occulta anche per i roghi che interessano la Calabria ogni estate, dove tutto appare occulto e trasversale».
Il settore della forestazione in Calabria è un’altra delle piaghe dolorose del declino civile di questa regione Domande a getto continuo…
«Chi ha interesse a bruciare? La colpa è della ‘ndrangheta e degli speculatori e intermediari che a vario titolo si disputano fette di territorio per i loro comodi? Dei costruttori senza scrupoli di slums abusivi, dei vecchi pastori di una perduta arcadia che fanno terra bruciata per ridurre i boschi a pascolo per pecore e capre? O degli stessi forestali che (si dice sempre sottovoce…) bruciano quello che loro stessi piantano per assicurarsi il lavoro sui cantieri di rimboschimento?».
Ma veramente l’aria che si respira nell’estate 2021 in Calabria è così avvelenata?
«Difficile credere, soltanto, all’autocombustione, ai piromani isolati, ai fanatici del fuoco in gita di piacere, ai mozziconi gettati distrattamente dai finestrini, come pure all’esercito di appiccatori di incendi dolosi per conto terzi. Forse il totale che assomma i fuochi che estate su estate divampano incontrastati è il risultato di tutte queste scelleratezze messe assieme. In una regione in cui si ha sempre fame di qualcosa e si va sempre dritti allo scopo con ogni mezzo lecito o illecito, non è una cosa improbabile».
Lei è un antropologo di tendenza in Calabria e non solo. L’ennesima estate di cattivi pensieri?
«C’è nel fuoco che cova e incenerisce, l’espansione di una diffusa cattiveria sociale. Qualcosa che serpeggia e si incista nella vita come una follia collettiva. Questa regione disprezza e odia. Un odio per la natura e per la storia, un odio che si scatena contro i beni pubblici indisponibili. In ogni rogo, in ognuno di questi fuochi che inceneriscono quel poco di Calabria verde che ancora resiste, si manifestano i segni del posizionamento irredento, selvaggio, fuori ogni limite di una Calabria che rifiuta le regole e la razionalità condivisa del mondo contemporaneo».
La Calabria brucia. Ancora…
«Si consuma nel fuoco impuro di questi giorni di Ferragosto una sotterranea pulsione di morte e di olocausto. Lo sfogo di una follia autodistruttiva, un desiderio di distruggere e negare. È un odio cieco e feroce per sé stessi e per la propria terra, una furia che tutto vuole annichilire, incenerire, consumare fino all’osso. Ma la Calabria non è l’Araba fenice. Da queste ceneri non si rinasce come se niente fosse. Intanto la Calabria brucia ancora, focu meu!».
Ci perdoni: cosa vuol dire “focu meu”?
«E’ una tipica espressione dialettale che indica stupore, sensazione di meraviglia e quasi incredulità rispetto a qualcosa di inatteso, fuori dal comune o semplicemente meraviglioso».
Le fiamme in Calabria sono inattese?
«Purtroppo si ripetono con sospetta cadenza…».