La corsa di Pechino alla conquista del mondo fermata da Evergrande

E’ ormai caccia ai beni rifugio per i proprietari di titoli immobiliari cinesi, gli investitori vogliono realizzare quanto possibile e l’insolvenza della Evergrande Group ha trascinato al ribasso le borse di tutto il mondo. Per capire la portata della crisi bisogna tornare al 1996 quando l’uomo d’affari cinese Hui Ka Yan, nella cittadina di Guangzhou, nel sud della Cina, aveva fondato Hengda Group. La crescita era stata una marcia trionfale, così la società, divenuta Evergrande Real Estate, oggi possiede più di 1.300 complessi immobiliari in 284 città sparse per tutta la Repubblica Popolare e nel tempo ha esteso i suoi affari alla gestione patrimoniale, alla produzione di auto elettriche fino alla produzione di alimenti e bevande. Mister Hui possiede anche una delle più grandi squadre di calcio del paese, il Guangzhou FC, e secondo la rivista Forbes ha una fortuna personale di circa 10,6 miliardi di dollari.

Oggi però l’esposizione del colosso cinese ha numeri impressionanti, con debiti verso centinaia di banche e società d’investimento, delle quali in Europa la Amundi guida il gruppo dell’esposizione con ancora 25 milioni di dollari, comunque meno del 10% rispetto a quanto era il debito all’inizio dell’anno. E le vendite, si sa, sono contagiose.

Ma i miliardi di dollari che mancano oggi sono duemila e il Governo di Pechino ha da mesi chiuso i cordoni della borsa verso le province più indebitate e quelle nelle quali si stavano sviluppando comparti tecnologici che portavano alla rapida necessità di nuovi quartieri e quindi di appartamenti e uffici, il vero affare di Evergrande. La società entro questa settimana dovrebbe pagare 83,5 milioni di dollari di interessi relativi alla sua obbligazione di marzo 2022 e altri 47,5 milioni sarebbero già dovuti arrivare il 29 settembre. Ci sono, in entrambi i casi, trenta giorni di tempo per onorare il debito, ma poi la compagnia si troverebbe nelle condizioni di default. Se ciò dovesse avvenire bisognerà vedere quale linea deciderà di tenere Pechino: difficilmente opterà per lasciar crollare la compagnia, ed è più probabile che si potrebbe assistere a un fallimento gestito nel tempo con la messa in sicurezza delle obbligazioni. Dunque a far tremare borse e mercati in ogni angolo del pianeta sono soprattutto gli 84 milioni di dollari di interessi che il gruppo dovrebbe pagare dopodomani (23 settembre).

Nel classico stile cinese di crescita rapida degli affari Evergrande si era espansa in modo aggressivo per diventare una delle più grandi aziende cinesi, e lo ha fatto sia raccogliendo capitali (interi complessi residenziali erano pagati interamente ancora prima di allestire i cantieri), sia prendendo in prestito più di 300 miliardi di dollari. Tuttavia per evitare ripercussioni incontrollate sulle finanze, l’anno scorso Pechino ha introdotto nuove regole per controllare l’importo dovuto dai grandi promotori immobiliari e queste misure hanno portato Evergrande a soffrire fino a svendere le sue proprietà a prezzo ridotto per garantire che arrivassero soldi per mantenere a galla gli affari.

Questa incertezza ha visto il prezzo delle azioni di Evergrande crollare di circa l’85% dall’inizio dell’anno, con le sue obbligazioni che sono state declassate dalle agenzie di rating globali e con effetti nefasti sulle rendite promesse a chi, a sua volta, stava utilizzando quei guadagni per fare altri investimenti, specialmente in aree cinesi che ancora hanno bisogno di completare il loro sviluppo come Sichuan, Guizhou e Yunnan, nella parte sudovest del Paese.

Il fallimento del gruppo immobiliare porterebbe coloro che hanno investito nel mattone a perdere tutto senza ancora aver visto costruire le case acquistate, così come le aziende che da Evergrande ricevevano le commesse, fornivano i materiali e la progettazione – praticamente quasi il 100% del loro lavoro – essendo più piccole e prive di risorse fallirebbero a catena, allargando una crisi a livelli ben peggiori di quella della banca d’affari Lehman Brother nel 2007. Infine ci sarebbero gravi conseguenze a causa dell’impatto sul sistema finanziario cinese: il gruppo deve soldi a 171 banche nazionali e 121 società finanziarie, istituti che se non rientrano di questi capitali saranno costretti a fermare i finanziamenti per tutelarsi e proteggersi, ovvero a praticare una “stretta creditizia” limitando le erogazioni e alzando il costo e il livello delle garanzie. La ripercussione ancora una volta colpirebbe aziende più piccole.

“Fino a 2016 il valore immobiliare di un appartamento nel centro di una città cinese come Chengdu o Chongqing raddoppiava ogni anno” spiega Loong Yuchen Fei, agente immobiliare “questo ha creato aspettative e illusioni che la bolla potesse durare a lungo, e anche i neo-operatori cinesi senza una conoscenza del mercato immobiliare estero hanno finito per illudersi e illudere i loro clienti che investivano il contante guadagnato con l’export. Ma la pandemia, limitando le produzioni e le esportazioni verso Usa ed Europa ha causato un brusco risveglio.”

Ovviamente la situazione attuale innervosisce gli stranieri che da oggi potrebbero vedere la Cina come un luogo meno attraente dove investire i propri soldi. Il governo di Pechino si rende conto che il tonfo di un colosso come Evergrande segnerebbe per decenni l’economia, e quindi seguendo il concetto che sia “troppo grande per fallire” pensa di intervenire, soprattutto per non rischiare di interrompere le catene di approvvigionamento dei cantieri e far infuriare i proprietari di case, ovvero cercando il modo di garantire che le attività non finanziarie del gruppo possano continuare. Ma nel governo non mancano i contrari all’operazione, gli stessi che a metà agosto avevano voluto fortemente l’approvazione del Piano per promuovere “un sistema di mercato unificato, aperto, giusto e ordinato 2021-2025” , che tradotto significa il rafforzamento del potere del Partito Comunista cinese nell’economia nazionale. Costoro sono contrari a qualsiasi intervento e desiderano che Evergrande si salvi da sola. I primi effetti del piano si erano visti immediatamente: le aziende semi-private che avevano investito anche all’estero hanno immediatamente rivisto al ribasso gli investimenti a lungo termine, chiudendo attività di ricerca e sviluppo in settori ancora “non pronti” per il mercato nazionale. Il “no” a un salvataggio pubblico sarebbe quindi coerente con l’obiettivo di Pechino di tenere a freno il debito societario, il che significa che un salvataggio di così alto profilo potrebbe essere visto come un cattivo esempio. C’è infine un altro pericolo: che la situazione finanziaria cinese, nel suo complesso, sia in realtà molto peggiore di quanto appaia, e che questa vicenda sia soltanto l’inizio di una parabola discendente della loro economia.

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