lunedì, 25 Novembre 2024
La crisi del mondo occidentale colpa dei «valori» diventati «interessi»
Non serviva uno staff formidabile; per certi versi bastava un buon amico per evitare a Joe Biden una disfatta così clamorosa non solo sul piano strategico ma anche su quello comunicativo. La mancanza totale di autocritica, lo scomposto scaricabarile sull’esercito afghano e sull’amministrazione Trump, l’impreparazione sconcertante sulla gestione della ritirata, che disgraziatamente diventata una fuga, la totale mancanza di sensibilità nei confronti delle forze alleate. Tutto fa pensare che i paladini di una certa avanguardia intellettuale democratica (anche di casa nostra) si siano a rivelati in poche settimane nient’altro che un grande bluff. Nel novero inseriamo anche il premio nobel per la pace Obama, improvvisamente eclissatosi, e anche Kamala Harris, che assieme alle attiviste del MeeToo si è data alla macchia, mentre le donne afghane chiedevano un gesto di speranza.
Ma forse la frase più dirompente del presidente americano, quella che davvero inaugura una nuova epoca, densa di incertezze, è quella per cui l’ “Afghanistan non rientra più negli interessi degli Usa”. Non si parla più di principi, di libertà, di valori, ma di interessi. Il dramma è che ha ragione, ogni Paese fa effettivamente i suoi interessi: ma a colpire è la crudezza adottata, più o meno consapevolmente, da Biden. Comunicare al mondo un simile concetto in maniera così esplicita è un gesto di portata sconvolgente. Come ha scritto Domenico Quirico, “dando un nome alle cose si rischia di ferirle in mezzo al cuore con un colpo irrimediabile”. E a restare ferita è l’idea stessa di democrazia.
Non scopriamo certo oggi che il potere è fatto di interessi più o meno oscuri. Ma abbiamo sempre voluto credere che il primato dei sistemi democratici sui regimi autoritari sia quello di contemperare questi interessi “pragmatici” con valori più alti: libertà, uguaglianza, progresso per tutti. Valori talvolta retorici, talvolta traditi, ma che restano alla base delle costituzioni democratiche. Qualcuno la chiama ipocrisia, ma in realtà si tratta di un equilibrio delicatissimo tra tensione ideale e realpolitik. Uno sforzo incessante per sancire una superiorità di valori sui governi tirannici e oscurantisti.
Ecco, se il presidente degli Stati Uniti dice senza giri di parole che la guida dell’occidente si riduce solo a semplici “affari”, allora la crisi, ancor prima che politica o militare, sarà una crisi di fiducia. Fiducia nelle istituzioni occidentali, nella loro storia e nella loro missione di modernità: sui diritti civili, sui diritti delle donne, sulle libertà fondamentali. E se perdiamo la fiducia, ad avvantaggiarsene saranno ovviamente le nuove potenze, Cina e Russia, che del pragmatismo hanno fatto da decenni la loro cifra distintiva
(e lo dimostra la velocità con cui Pechino e Mosca hanno consolidato i rapporti con i talebani tornati al potere). Segno che, se il campo di gioco è questo, forse certe partite le potenze asiatiche sanno giocarle meglio di noi. Certamente meglio dell’Europa, che anziché dotarsi di una difesa comune ha preferito rompersi la testa per anni sulle regole di bilancio, presentandosi all’appuntamento con la crisi afghana, come sempre, in ordine sparso. Se davvero verrà meno lo scudo americano, per gli europei sarà meglio allacciare le cinture.