La crisi dell’italiano non è solo colpa della scuola

Si legge poco e si scrive ancora meno. Questa pare essere la fotografia della società italiana attuale, e la scuola è complice di questo declino perché non riesce a trasmettere la passione e l’importanza della lettura, così come non assegna i compiti di scrittura necessari che consentano esercizio e pratica della parola. Ad andarci di mezzo c’è una generazione di studenti e forse anche la lingua italiana, elemento vivo nella società, ma sempre più sottratta alla precisione, all’esattezza e alla cura dello studio.

Un tema di profonda discussione su cui interviene Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, l’istituzione che custodisce la nostra lingua.

Non si scrive davvero più? Non si legge davvero più?

Su questo tema occorre riflettere bene, perché altrimenti si rimane prigionieri di un manicheismo che radicalizza posizioni opposte, come nelle tifoserie. Mi spiego meglio: come mai accade di ascoltare lamenti accorati sulla perdita della scrittura e della lettura, e al tempo stesso illustri linguisti ci spiegano che in Italia non si è mai letto e scritto tanto come oggi, e che i giovani del nostro tempo sono molto più bravi dei loro genitori e dei loro nonni? Come possono convivere interpretazioni così diverse della medesima realtà? La posizione che chiamerò ‘ottimistica’ era quella di Tullio De Mauro, ed è sostenuta da chi si ispira a lui. Si fonda su dati quantitativi e di statistica storica, paragonando la situazione attuale delle masse popolari a quella del passato. D’altra parte, c’è chi la pensa in modo assolutamente contrario. I dati dell’inchiesta OCSE PIAAC 2013 collocavano gli italiani all’ultimo posto nella conoscenza della propria lingua. I dati PISA e gli esiti dei concorsi pubblici spingono periodicamente i giornali a lanciare segnali di allarme. Il “Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità – Saper leggere e scrivere: una proposta contro il declino dell’italiano a scuola “, nel 2017 fece parlare di sé raccogliendo 700 firme di autorevoli intellettuali che si ribellavano al declino dell’italiano della scuola. Tra i firmatari c’erano Massimo Cacciari, Ernesto Galli Della Loggia, Luciano Canfora, e anche diversi accademici della Crusca. In questo caso il raffronto è tra la scuola di massa di oggi e il risultato raggiunto un tempo dalla classe dirigente che si formava nella scuola d’élite. Come si vede, le due tifoserie praticano misurazioni tra loro non omogenee, e quindi non arriveranno mai a intendersi”.

La scuola è responsabile (anche se non unica) dei saperi acquisiti e mancati di un’intera generazione. Cosa è successo? Perché si è arrivati a questo punto?

“Sicuramente si deve alla scuola la conservazione, nonostante tutto, di un pur elementare canone fondato sulla tradizione. Se non ci fosse la scuola, non solo i giovani non saprebbero chi è Manzoni, ma probabilmente non leggerebbero nemmeno un verso di Dante. Non saprebbero dell’esistenza di Ariosto e Tasso, forse nemmeno di Machiavelli. L’eterno presente di una Rete osannata e usata in maniera selvaggia, acritica, dominata dai social, travolgerebbe ogni memoria del passato. Quindi la scuola ha molti meriti, e io le sono grato. Poi, naturalmente, pesa il disordine: per esempio l’assenza di programmi ministeriali, ormai rimpiazzati da “linee guida”, magari belle, ma di incerto valore normativo, visto che non si sa se obblighino davvero o siano un semplice benevolo consiglio. Quindi (e me ne sono ben accorto negli ultimi anni della mia docenza universitaria) non si può mai presupporre un canone di conoscenze certe negli studenti che escono dalla scuola secondaria. È il prezzo che si paga all’autonomia e all’assoluta libertà degli insegnanti. Resta forse un unico argine, ed è l’esame di stato finale. È l’ultimo vincolo, per quanto modesto, tanto è vero che molti vorrebbero abolirlo”.

Cosa può fare la scuola nel breve e nel lungo termine per risanare questa situazione? Con quali energie?

“Credo che ogni insegnante di italiano abbia avvertito in questi anni la decrescita del proprio ruolo. È come se fosse stato collocato in una posizione via via sempre più marginale. Un tempo, l’italiano era il perno dell’insegnamento, e nessuno ne metteva in discussione la centralità. Poi è venuto il CLIL, e la lingua veicolare di alcune discipline (anche umanistiche) è diventata l’inglese. Nella scuola si sono inserite operazioni commerciali come quella dei Licei Cambridge, che hanno sapientemente snaturato l’impostazione tradizionale italiana della didattica e hanno imposto ulteriormente l’inglese. Tutto questo si è collegato all’opzione per l’inglese nell’università. Il primo segnale è stato il tentativo di eliminazione dell’italiano dalle lauree magistrali e dai dottorati messo in atto dal Politecnico di Milano nel 2012. La sentenza n. 42/2017 della Corte Costituzionale ha posto un argine a questa valanga, ma in sostanza la tendenza non si è certo arrestata, e la didattica senza l’italiano ha acquisito dappertutto nuovi spazi, con entusiasmo di molti, alcuni in buona fede, altri meno, e con la benedizione del Ministero. In un contesto del genere, è evidente che studenti e famiglie abbiano maturato una certa disaffezione per la lingua nazionale, che appare molto meno utile di un tempo”.

Un docente universitario ormai lavora ore alla correzione ortografica e sintattica delle tesi dei suoi studenti e proprio un ordinario ha rivelato di trovare i suoi laureandi più a loro agio con l’inglese rispetto all’italiano. L’involuzione della scrittura della lingua italiana è così allarmante?

“Ecco, appunto: questa è l’inevitabile conclusione della vicenda. Salvo un dettaglio: non sono convinto che gli studenti italiani, condotti a deprezzare e forse disprezzare la propria lingua naturale, abbiano acquisito questa meravigliosa pratica dell’inglese. Certo, se il giochetto si svolge in famiglia, cioè se abbiamo italiani che simulano anglofonia con altri italiani, l’apparenza è quella di un possesso meraviglioso. In ogni modo non è colpa né degli insegnanti, né della scuola. La responsabilità è delle classi dirigenti, che hanno deliberatamente svalutato la lingua italiana e la sua funzione veicolare. Fra l’altro, per imparare bene una lingua straniera occorre possedere bene la propria lingua, altrimenti, alla fine, ci si trova nella condizione dei parlanti delle lingue creole”.

Scuola, ma non solo. Scrittura e lettura, ma non solo. Come sta la lingua italiana nel terzo millennio?

“Ovviamente la lingua italiana sta benissimo: è una grande lingua di cultura con una storia millenaria. Anche se la si abbandonasse, resterebbe come patrimonio dell’umanità, così come lo sono le lingue classiche, con la sua storia, la sua letteratura, la sua duttile disponibilità. Persino la ricchezza morfologica dell’italiano viene oggi messa in discussione, quasi fosse un difetto, perché si apprezza il fatto che altre lingue non distinguano i generi, mentre l’italiano non può fare a meno di queste precisazioni. Anche il linguaggio di genere, nelle sue ultime frontiere più radicali, con asterischi e schwa, collabora a screditare e molestare il nostro idioma. Allora possiamo serenamente concludere che non è la lingua che sta male, ma è il popolo italiano che vive il proprio declino”.

Leggi su panorama.it