La Pace di Zelensky, i​n 10 punti. Ma Usa e Cina trattano con Putin su altro

Volodymyr Zelensky è intervenuto in video al summit di Bali per il G20. E non ha perso tempo con troppi panegirici suggestivi e parole auliche, tese a impressionare i suoi interlocutori e a infondere eroismo ai suoi alleati. Stavolta è stato molto più concreto. Così, a entrare la storia potrebbero non essere più soltanto i suoi discorsi, ma anche le proposte di pace che il presidente ucraino ha elencato di fronte ai grandi della Terra. Dieci punti da cui partire, irrinunciabili per la cessazione delle ostilità. «Sono convinto che questo sia il momento in cui la distruttiva guerra russa debba e possa essere fermata» ha precisato il leader ucraino.

E in un certo senso ha ragione da vendere: solo di fronte a Stati Uniti e Cina, con la vigorosa stretta di mano tra Joe Biden e Xi Jinping andata in scena a Bali (la cui discussione è stata definita «franca e aperta» ed è durata ben tre ore) si può pensare d’intavolare una strategia di uscita credibile. Intanto ci ha provato Kiev, che ha stilato una lista completa delle sue richieste. Un primo vero passo avanti per la fine delle ostilità, finalmente nero su bianco. Ecco quali sono le pretese ucraine nei confronti di Mosca:

1. Radiazioni e sicurezza nucleare

2. Sicurezza del cibo

3. Sicurezza energetica

4. Liberazione di prigionieri e deportati

5. Attuazione della Carta delle Nazioni Unite

6. Ritiro delle truppe russe e cessazione delle ostilità

7. Giustizia

8. Ecocidio e tutela dell’ambiente

9. Prevenzione dell’escalation

10. Conferma della fine della guerra

Sul primo e sul terzo punto Zelensky, cogliendo al balzo la reprimenda cinese nei confronti della Russia degli scorsi giorni, ha esortato i leader del G20 a usare tutto il loro potere per «fare in modo che la Russia abbandoni le minacce nucleari» e per implementare un tetto massimo per l’energia importata da Mosca. Ha anche chiesto che i russi cessino di bombardare scientificamente le centrali elettriche e gli impianti che danno energia al Paese, per evitare che gli ucraini passino l’inverno al freddo, cosa che «è diventata un’arma contro milioni di persone».

La principale e più accorata tra le richieste di Zelensky è però incentrata sul secondo punto: l’estensione di quella che è nota come Black Sea Grain Initiative, siglata a luglio tra le Nazioni Unite e la Russia, per sfamare la popolazione e assicurare che le esportazioni di cibo bloccate nei porti ucraini dalle navi da guerra di Mosca possano giungere a destinazione.

L’appello ai «leader del G19» – come ha ripetuto spesso Zelensky, a sottolineare con forza l’isolamento russo – è a far presto. Anche perché l’accordo che ha prevenuto una crisi alimentare globale e ha consentito di esportare con successo 10 milioni di tonnellate di grano e altri alimenti secondo le Nazioni Unite, scade il 19 novembre: «Dovrebbe essere prorogato a tempo indeterminato, non importa quando la guerra finirà» ha chiesto il presidente ucraino.

Punto 4. Ovvero la formula del «tutti per tutti» per uno scambio prigionieri equo. «Migliaia dei nostri militari e civili sono ostaggio dei russi, sottoposti a torture brutali. Si tratta di abusi di massa. Conosciamo per nome gli 11.000 bambini che sono stati deportati con la forza in Russia […] Aggiungete centinaia di migliaia di adulti deportati e vedrete quale catastrofe umanitaria ha causato la guerra russa. Aggiungete poi i prigionieri politici, cittadini ucraini detenuti in Russia e nel territorio temporaneamente occupato, in particolare in Crimea. Dobbiamo liberare tutte queste persone […] dobbiamo unirci per il bene secondo l’unico modello realistico di liberazione dei prigionieri: “tutti per tutti”».

Quinto e settimo punto, il rispetto della carta Onu e la questione della giustizia: mai come oggi Mosca si ritrova scollegata da un contesto internazionale. Lo si è visto plasticamente al vertice del G20, con diversi leader occidentali che non hanno voluto avere alcun contatto con il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, plenipotenziario per conto del Cremlino e rimasto letteralmente in mutande (vedere il video della sua portavoce per credere). Il tema che riguarda in particolare i crimini di guerra, è di difficile soluzione. Anche perché un gruppo di esperti delle Nazioni Unite lo scorso settembre ha concluso che sono effettivamente stati commessi crimini di guerra in Ucraina dopo l’invasione russa.

La Commissione d’inchiesta era stata istituita a maggio per indagare sui bombardamenti russi in aree civili, e su torture, esecuzioni e violenze sessuali. Atrocità che, se documentate, prima o dopo finiranno nelle aule di giustizia. «Siamo rimasti colpiti dal gran numero di esecuzioni nelle aree che abbiamo visitato: la Commissione sta attualmente indagando su di esse in 16 città e insediamenti, abbiamo ricevuto accuse credibili di molti altri casi di esecuzioni che stiamo documentando ulteriormente» hanno notificato gli inviati Onu.

Ma il più scivoloso e di difficle attuazione resta il punto 6: il ritiro delle truppe russe dal suolo ucraino e la cessazione delle ostilità. Se un cessate il fuoco non è un’ipotesi improbabile in queste ore, tuttavia l’incessante opera di scavo delle trincee da parte russa dimostra l’incrollabile determinazione del Cremlino quantomeno a tenere le posizioni attuali. Un ritiro completo e coatto non è pensabile allo stato dei fatti, né si comprende se e come Mosca potrebbe rinunciare alla penisola di Crimea. Che difatti diventerà la pietra di paragone di ogni futura trattativa.

Quanto al punto 8 – ecocidio e tutela dell’ambiente – Zelensky si rifà alla minaccia di bombardare le centrali nucleari e di far saltare la diga di Nova Kakhovka sul fiume Dnepr, circa sessanta chilometri a est di Kherson, che sarebbe stata minata dai russi ponendo le basi per un disastro di dimensioni bibliche.

Infine, i punti 9 e 10 sono tesi a evitare un coinvolgimento di altri attori – Bielorussia, Iran, ma anche Corea del Nord e altri – nel teatro di guerra, evitando che dall’estero giungano rifornimenti di armi letali, tali da imporre un’escalation che manderebbe all’aria ogni speranza che le trattative sotterranee in corso possano infine affermarsi.

Nel suo discorso sui dieci punti, Zelensky ha paragonato la recente liberazione della città di Kherson, nel sud dell’Ucraina, alle battaglie che hanno portato alla sconfitta della Germania da parte degli alleati nella Seconda guerra mondiale. «È come il D-Day, lo sbarco degli Alleati in Normandia. Non era ancora un punto finale nella lotta contro il male, ma aveva già determinato per intero l’ulteriore corso degli eventi».

Questo paragone, di là dal suo essere o meno improprio, riporta alla mente la Conferenza di Yalta – che, ironia della sorte, è una città della Crimea – che nel febbraio del ’45 vide i leader Roosevelt, Stalin e Churchill anticipare la fine della guerra stabilendo il nuovo ordine mondiale. Che puntualmente si verificò non appena il crollo dei tedeschi fu completo e Hitler si suicidò.

Oggi Xi Jinping e Joe Biden hanno il vantaggio indubbio di poter frenare un conflitto che non è ancora degenerato in uno scontro mondiale, convinti che «il mondo è abbastanza grande perché due Paesi possano svilupparsi e prosperare assieme». A patto, però, che non prevalgano le miopi pretese geopolitiche di Paesi di rango inferiore a condizionare il momento propizio. La finestra per la pace è aperta: o la si spalanca o si rischia di cadere nel vuoto.

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