La poesia batte il conformismo

Ama Manzoni. E ha fatto volare l’Ulisse di Joyce contro il muro… In versi che somigliano a prose ha composto (e compone) ritratti mirabili di vite comuni. Incontro con uno dei più significativi scrittori italiani, che preferisce restare «nell’ombra». «L’apparenza ha nascosto la sostanza» dice. «Ma questa è alla nostra portata. Bisogna cercarla».


Il cugino Sandro commerciava in vini, ma era astemio». Potrebbe essere il racconto più corto della storia, invece è la sintesi del suo ultimo libro Un difficile viaggio. Giampiero Neri, come sedersi di fronte a un profeta. A 94 anni e con lo sguardo indagatore mitigato da un sorriso disarmante, uno dei più grandi poeti italiani osserva la società declinare dalla penombra fresca della casa di piazza Libia (anche titolo del suo penultimo libro) a Milano. Dalla finestra vede la panchina dove dorme il Giovanni, il verde della sua Brianza perduta, la giovinezza da bancario, i libri da portare nell’eternità, il conformismo di un Paese stanco. E contando sulla forza rassicurante della Provvidenza manzoniana continua a inventare storie, a esplorare galassie di provincia, a far brillare frammenti di passato con disincanto e ironia.

Perché l’hanno definita «maestro in ombra»?
Non l’ho mai chiesto a Maurizio Cucchi che ha inventato l’immagine. Interpreto: ho cominciato a scrivere tardi, a 40 anni, sulla rivista Il corpo di Giancarlo Majorino. Il primo libro l’ho pubblicato a 59, si intitolava L’aspetto occidentale del vestito.
Fino ad allora era stato bancario, come T.S. Eliot e Italo Svevo. Il posto meno poetico della Terra.
No… In banca si fa della poesia. I conti li fanno le macchine, l’uomo valuta i clienti guardandoli in faccia. Su una documentazione di base c’è poi un’analisi personale. È questione di sensibilità.
Ci faccia un esempio.
Lavoravo alla Banca commerciale italiana. Un giorno si presentò un terzetto a chiedere una cifra abbastanza alta. L’ostacolo principale erano i baffi del richiedente, il doppio di quelli di Salvador Dalí. Gli domandai come mai li portava così, mi rispose che lo faceva per un voto allo zio morto, che li aveva come lui. Ero perplesso, fino a quando non parlò il fratello che faceva il pescivendolo. Mi convinse con una frase poetica: «Se non si fida dei poveri, di chi vuole fidarsi?».
Lei si considera un manzoniano. Perché?
Perché sono nato a Erba, ho toccato con mano la sobrietà e la profondità del cattolicesimo lombardo. Se penso alle chiese romaniche di cui è costellata la Brianza trovo il contesto della nostra Fede. Quanto alla Provvidenza, niente è casuale nella vita, almeno per me che sono credente. Manzoni è il nostro grande poeta, e quando lo dico non penso alle poesie ma ai Promessi sposi. Romanzo assoluto dal titolo sbagliato.
Come sbagliato?
In fin dei conti che Renzo e Lucia si sposino non ci importa niente. In quel capolavoro c’è molto altro. Anzi c’è tutto. Manzoni non era uno scrittore, era un oracolo. Se il mondo dipendesse dai grammatici scriveremmo carrozza con la doppia zeta ma andremmo ancora a piedi.
Cos’è per lei la poesia?
È la ricerca della nudità della parola, della sua anima, che spesso riflette la nostra. Io scrivo poesie in prosa. Nel suo mondo vincono gli sconfitti come il signor Giovanni oppure i geniali solitari come il professor Fumagalli. Non sono frutto della fantasia, esistono o sono esistiti. Il Giovanni, protagonista di Piazza Libia, è un erudito senza fissa dimora. Trascorre le giornate sulla panchina vicino all’edicola a leggere, dispensa la saggezza di Fedro o Esopo per un panino alla mortadella. Il Fumagalli invece è stato il mio insegnante di lettere alle medie; amava i paradossi, sapeva che l’uomo ha bisogno di una meta. Diceva sempre: «Bisogna stare nei posti dove c’è il sole, ma all’ombra». Rido a ricordare le sue battute.
Ce ne regali una.
Fu un colloquio metafisico. «Professore, lei viene tutti i giorni a Inverigo. Perché non si trasferisce a Inverigo?». Lui rispose: «E dopo dove vado?».
Meriterebbe un libro.
Il manoscritto è pronto. Si intitolerà Un insegnante di provincia e uscirà l’anno prossimo per le edizioni Ares come tutti gli altri.
Perché ha deciso di dedicare un libro a piazza Libia?
È il mio microcosmo di vita e di verità. Ci sono passato per la prima volta 60 anni fa, sono rimasto affascinato dai colori autunnali e primaverili degli alberi e ho detto: qui non abiterò mai, è una zona da ricchi. Ci vivo da 60 anni.
Attraverso le sue poesie si vede Carlo Emilio Gadda.
Sono stato un suo grande ammiratore, ma negli anni sono diventato un po’ critico. Lo trovo crudele, segno di una piena maturità non raggiunta, perché uno da adulto non può essere crudele. Nella Cognizione del dolore è ossessionato dalla sua infanzia severa e dal rapporto conflittuale con la madre.
A proposito di parenti, lei ha cambiato nome per differenziarsi da suo fratello Giuseppe Pontiggia.
Si cambia nome per ricominciare daccapo, io l’ho fatto per diventare un letterato. E dire che avrei voluto essere un virtuoso di chitarra classica. Ma un giorno il mio maestro mi gelò: «Non sarai mai un concertista perché ti manca l’abilità manuale». Poiché mi sembrava poco interessante una vita trascorsa tra famiglia e banca, ho cominciato a scrivere. E mio fratello Peppo è stato il collaudatore del Neri.
La vostra giovinezza fu segnata dalla tragedia e da due modi diversi di metabolizzarla: il papà ucciso dai partigiani e la sorella suicida.
La differenza di età era notevole, sette anni. Quando è morto papà io ne avevo 16, lui non ne aveva ancora 10. Al contrario di me, il Peppo aveva un temperamento pacifico, studioso, paziente. Io somiglio più a mia mamma, nervosa, dinamica, che non lesinava qualche sberla.
Suo fratello aveva una biblioteca di migliaia di libri, lei sostiene che alla fine ne rimarrà uno solo.
Per la verità tre: l’Iliade, la Divina Commedia e Moby Dick. Sono le più alte rappresentazioni della vita e della morte.
Cosa pensa dello sbarco di Jovanotti nel mondo della poesia?
La propaganda alla poesia certamente non fa male, se n’è occupato anche D’Annunzio a cui si deve il nome della società La Rinascente.
Come ha trascorso la sospensione dell’esistenza in tempo di pandemia?
Non ha inciso sulle mie abitudini, mi sono limitato a stare di più in casa; ho avuto la sensazione di una maggiore solitudine. Al contrario di ciò che hanno voluto farci credere l’uomo si è ritirato, è passato dalla solidarietà alla singolarità.
In Europa si sente di nuovo il rumore del cannone.
La guerra ci dice che cambiano i tempi ma l’uomo non cambia e non impara mai.
Possiamo incolpare anche Dostoevskij?
Quella della censura universitaria è stata una follia, il gesto sconsiderato di un professore. In piazza Libia il tempo scorre più lentamente che nella civiltà dell’immagine.
Siamo vittime dell’apparenza. Superficialmente si potrebbe dire che l’apparenza ha annullato la sostanza, ma invece l’ha solamente nascosta.
La sostanza è alla nostra portata, dobbiamo essere bravi a cercarla.
Forse si trova nella vecchiaia.
Non solo e non sempre. La vecchiaia è un valore di cui faremmo a meno, ma rimane un valore. Ringrazio Dio di avermi consentito di vivere fino ad oggi.
Che cosa ci insegnano i suoi eroi sconfitti?
Ci insegnano che perdere fa riflettere mentre vincere fa stappare solo lo spumante. Si impara dalla sconfitta, come dagli errori. La sconfitta ci conduce alla grandezza dell’uomo finalmente simile a Dio, che è morto sulla croce.
Una visione anticonformista del nostro tempo.
Il conformismo è la negazione dell’intelligenza. Intelligere vuol dire capire, il conformista non cerca di capire ma si adegua a scatola chiusa al pensiero dominante.
Un giorno lei prese l’Ulisse di James Joyce e lo scagliò contro il muro. Perché?
L’Ulisse volante… (il maestro sorride). È un grande classico, ma l’uso della parola talvolta è così provocatorio da essere irritante. Dante Alighieri diceva che la lettura è nutrimento. Leggiamo per nutrirci, non per perdere tempo.

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