La «voglia» di Putin di prendersi il Donbass parte dal 2014

E così ci siamo. Vladimir Putin riscrive la storia e con un tratto di penna in diretta televisiva sancisce la spartizione definitiva dell’Ucraina. In qualsiasi modo reagiranno Kiev, Washington, Bruxelles e il resto dell’Occidente, qualcosa è già cambiato per sempre. Esattamente otto anni dopo la rimozione del presidente filorusso Viktor Yanukovic da parte del parlamento dell’Ucraina, il 22 febbraio 2014, Putin si vendica e si «riprende» ciò che ritiene suo di diritto. Una data certamente non casuale, una mossa di scacchi che dimostra premeditazione e lunga pianificazione. L’azzardo del Cremlino, infatti, punta con ogni evidenza ad annettere definitivamente alla Russia il Donbass. Perché Putin lo vuole così tanto?

Donbass significa «bacino del Donec» e il suo nome si rifà all’affluente del Don, che bagna e circoscrive l’est dell’Ucraina. Cominciò a essere chiamato così a partire da fine Ottocento, quando la regione assunse una particolare importanza economica grazie ai suoi giacimenti di carbone. Il boom economico che seguì ne fece un luogo fiorente di commerci, complice anche l’estrazione del sale dai molti laghi sparsi sul territorio.

Linea di difesa dai tatari in Crimea, il Donbass fu ed è rimasta sempre una regione storica. Non corrisponde a una vera e propria divisione amministrativa, perché formalmente l’area è divisa tra gli oblast («regioni») di Luhansk, Donetsk e Dnipropetrovsk. L’intero territorio, però, è nel mirino di Mosca sin da quando l’Ucraina è uscita dall’orbita sovietica: Stato indipendente ma fortemente dominato dall’influenza polacca prima e da quella russa poi, l’Ucraina entrò a far parte dell’Unione Sovietica nel 1922, e qui rimase praticamente fino al 1991, anno in cui ebbe inizio lo smembramento dell’Urss, con la contestuale creazione di altre nove repubbliche indipendenti, tra le quali appunto l’Ucraina.

Il 5 dicembre 1994 il Memorandum di Budapest sancì la nuova composizione politica: con quel trattato Kiev rinunciava al nucleare, ma si garantiva il rispetto di Mosca della sua indipendenza e integrità territoriale. Ora però, secondo Putin non va più bene: il Donbass «è territorio russo, fa parte della nostra Storia». E perciò alla madre Russia deve tornare. La «lezioncina» di storia impartitaci a reti unificate, punta a giustificare agli occhi del mondo quella riappropriazione: «peackeeping» l’ha chiamata il presidente russo, con un geniale quanto inquietante gioco di parole. Se è quantomeno paradossale che proprio Vladimir Putin parli oggi di peacekeeping, è invece vero che la storia recente ha visto Kiev sempre stretta tra le braccia di Mosca.

Questa presa è durata fino al 2013, quando sono esplose a Kiev massicce proteste europeiste, denominate «Euromaidan». Partite come manifestazioni di piazza nel dicembre 2013, sono poi degenerate in violentissimi scontri, che hanno portato al più classico degli «assalti al palazzo»: una vera rivolta che ha costretto il presidente filorusso Viktor Yanukovich a fuggire rocambolescamente all’estero quel fatidico 22 febbraio. Da quella data, i nuovi governi che si sono installati a Kiev hanno avuto tutti una forte trazione filo-occidentale e filo-atalantista.

Questo ha portato il Cremlino a rompere immediatamente gli indugi e ad annettere unilateralmente la penisola della Crimea, sempre nel febbraio del 2014. Questo ha sancito la fine dei buoni rapporti di vicinato tra Kiev e Mosca, con la situazione che è degenerata proprio in Donbass, dove i ribelli filorussi hanno combattuto l’esercito ucraino e dichiarato l’indipendenza. Con un referendum, puntavano all’annessione per via «legale» di Luhansk e Donetsk alla Federazione russa, proprio sul modello della penisola di Crimea.

Non solo l’accordo non è stato ratificato dal Cremlin: mentre in Crimea non si è sparato un solo colpo, invece l’oblast di Luhansk e di Donetsk hanno conosciuto una vera e propria guerra civile, che ha fatto 13 mila morti tra soldati e civili e che ha visto la Russia armare e finanziare i ribelli del Donbass, senza però che alla fine si giungesse a un riconoscimento ufficiale degli indipendentisti.

All’inizio del 2015 gli accordi di Minsk hanno sancito la cessazione delle ostilità e il ritorno all’Ucraina delle regioni ribelli, in cambio di maggiore autonomia. Ma quegli accordi, pur firmati da Mosca con tutte le parti, non sono stati mai davvero rispettati.

Al punto che oggi Putin è arrivato a dichiarare l’Ucraina «un Paese corrotto e nazionalista», che «ci ha ricattato», e che in fondo oggi «è una colonia americana». In verità, semmai, la colonia è russa. Nel Donbass si parla più russo che ucraino, e la doppia lingua è un fatto normale a scuola. Lo stesso presidente ucraino Zelensky ha origini russe e da lì proviene: precisamente da Kryvyi Rih, nell’oblast di Dnipropetrovsk.

Ciò non significa, tuttavia, che il Donbass – un’area di oltre 10 mila km quadrati e circa 7 milioni di persone – debba per questo essere automaticamente considerato territorio russo, sia pur se ne condivide in parte cultura ed etnia. Il diritto internazionale dice altro. E Zelensky è lì a dimostrarlo.

Quanto all’espetto economico, la regione era dotata di buone infrastrutture e di un commercio stabile, anche se mai decollato veramente dopo la separazione dall’Unione Sovietica (voluta da pressoché tutti gli ucraini, anche dell’est): a Donetsk, il centro più attivo, l’aeroporto garantiva una certa internazionalità alla regione, e qui sono state disputate diverse partite di calcio di Uefa 2012.

Oggi, però, tutto questo è un ricordo sbiadito: il Donbass è più che mai isolato dal resto del mondo, con i carri armati russi che ne circondano il perimetro – una frontiera-trincea lunga 400 km – e un esodo di civili e sfollati in fuga dalla guerra, che crescono di giorno in giorno.

Quello che accadrà adesso in questa regione è facile prevederlo: col pretesto della difesa dell’indipendenza, i russi si vorranno attestare nelle città-chiave per controllare definitivamente il Donbass sotto ogni punto di vista, politico, economico, militare. In attesa che o le sanzioni o altri eserciti stanino i russi e li convincano a tornare sui loro passi.

Cosa che la Russia, ma soprattutto Vladimir Putin non è uso a fare: anzi, geopoliticamente parlando, il presidente è impegnato anche in un teatro parallelo, quello della Bielorussia, dove è in corso un’altra occupazione de facto di un territorio ex sovietico, grazie al poderoso schieramento di truppe di Mosca, strategicamente posizionate al confine bielorusso-ucraino. Difficilmente smobiliteranno da lì d’ora in poi, e il presidente-vassallo Lukashenko è il primo a esserne consapevole.

Il presidente russo ha dunque mosso i propri pezzi sulla scacchiera. Di certo Vladimir Putin non potrà ricostituire l’Urss, ma allo stato dell’arte potrà quantomeno dire che ci è andato vicino.

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