sabato, 19 Aprile 2025
L’amore secondo Dalva affronta con grazia un tema delicatissimo
L’incipit di L’amore secondo Dalva è un groviglio caotico di corpi e strilli che si dimenano in uno spazio ristretto, levandoci ogni punto di riferimento. Non abbiamo idea di cosa stia succedendo: riusciamo solo a intuire che la polizia sia entrata nella casa dell’eponima Dalva (Zelda Samson), e che quest’ultima stia cercando di opporsi al suo intervento, mentre un uomo viene portato via. La stessa protagonista, nella confusione della scena, ha qualcosa di elusivo che la rende ambigua, come se il suo aspetto discordante ne offuscasse la vera natura.
È proprio sulla figura inafferrabile di Dalva che l’esordiente Emmanelle Nicot costruisce l’intero film, dipanando così la matassa di un’identità manipolata, bisognosa di ritrovare sé stessa e la sua età di appartenenza. Basta un primo piano sul volto di Zelda Samson per capire che si tratta di una bambina, o comunque una ragazzina appena entrata nell’adolescenza. L’effetto straniante deriva però dagli abiti e dai gioielli che indossa, trucco compreso: Dalva si veste e si acconcia come una donna adulta, realizzando un ideale femminile (non suo) che sarebbe parso vetusto anche mezzo secolo fa. Quando viene assegnata a un centro di prima accoglienza per minorenni, scopriamo che Dalva è stata abusata dal padre per anni, ma lei non ne ha coscienza. È convinta che quella fosse una legittima storia d’amore – per quanto incompresa dal mondo esterno – e che il sesso ne incarnasse l’espressione più naturale.
La ragazzina non sopporta di stare senza il padre, ed è sorda alle parole degli educatori che cercano di farle capire la realtà delle cose. Nicot dimostra già una grande consapevolezza del linguaggio filmico, perché sa che l’occhio dello spettatore e quello della macchina da presa combaciano: non a caso, resta incollata a Dalva per tutto l’arco narrativo, costringendoci ad assumere il suo punto di vista, a entrare nella sua interiorità. Quando la protagonista ottiene di incontrare il padre in carcere, l’inquadratura di spalle è sconcertante. La porta si apre, e immediatamente Dalva lascia cadere il cappotto, rivelando la schiena nuda in abito da sera. Si tratta di un vero e proprio shock, anche per il sapiente montaggio sonoro: condizionata da anni di soprusi, la ragazzina si offre idealmente al suo carnefice, ne asseconda le fantasie. Nicot non ha bisogno di mostrare niente di esplicito (per fortuna), le basta suggerire l’idea di una manipolazione decennale, radicatasi a fondo nell’inconscio della protagonista.
Perché, in fondo, cos’è L’amore secondo Dalva? A causa degli abusi paterni, l’eros è l’unica forma di comunicazione che conosce, al punto che sesso e affetto per lei coincidono. Anche le scene più disagevoli – come il suo modo di rapportarsi con gli uomini – rientrano appieno in una psicologia che va ricostruita gradualmente. Per certi aspetti, il percorso di Dalva richiama il frainteso Mignonnes di Maïmouna Doucouré: una crescita sana deve sempre ripartire dall’infanzia. In tal senso, Nicot è molto brava a lavorare sul volto e sul corpo della ragazzina, attribuendole un’indole sfuggente che trae origine proprio dai contrasti. Mascherata dietro gingilli da donna matura, e poi riportata bruscamente alla sua età con soluzioni basilari, Dalva subisce una vera trasformazione: è come se nel film si alternassero tre persone diverse, anche grazie alla formidabile performance di Zelda Samson.
Di contrasti si nutre anche questa evoluzione. L’unica ingenuità de L’amore secondo Dalva è forse la scelta di affidarsi a un vecchio cliché per tracciare il cammino della protagonista, che vive un acceso conflitto con la compagna di stanza Samia (Fanta Guirassy) salvo poi diventarne la migliore amica, e imparare da lei cosa significhi essere un’adolescente. È un topos narrativo un po’ abusato, ma Nicot lo usa per valorizzare almeno due livelli di solidarietà: da un lato quella femminile, dall’altro la complicità fra diseredati, all’interno di un divario sociale che emerge soprattutto nei rapporti con i compagni di scuola. Non è però un film pietista, né tantomeno ricattatorio. L’amore secondo Dalva non elemosina la compassione del pubblico, ma narra con delicatezza la storia di una rinascita personale, lontanissima da qualunque paternalismo. Una progressione verso la luce che chiede solo di essere ascoltata, e che gli strumenti del cinema sanno raccontare con straordinaria immediatezza, grazia ed empatia.
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