lunedì, 25 Novembre 2024
Le battaglie retrograde del sindacato calciatori
L’ultima volta che se n’è sentito parlare, il presidente del sindacato dei calciatori italiani era ancora Damiano Tommasi e stava sulle barricate per difendere gli stipendi spesso d’oro dei suoi associati. “Tagliarli? Ci sono altre priorità” tuonava dall’alto della barricata eretta per respingere la richiesta dei club che, in pieno lockdown per Covid, avevano immaginato di poter condividere le perdite intervenendo anche – in maniera graduale – sulle buste paga dei loro giocatori. Top o presunti tali. Non se fece nulla o quasi, in nome dei diritti acquisiti e quindi inviolabili che tanto piace ai sindacati quando si tratta di discutere di sacrifici, dalle pensioni (anche quelle d’oro) a benefit e stipendi fino ad arrivare agli ingaggi di Ronaldo e soci.
Oggi l’Assocalciatori torna a far parlare di sé. Il presidente non è più Tommasi, che ha scelto la politica candidandosi a sindaco di Verona, ma Umberto Calcagno che nella primavera del 2020 era il numero due del sindacato e che, evidentemente, ne condivide la linea retrò da Fiom del pallone. Con l’aggravante che Maurizio Landini per anni ha difeso i diritti di una categoria debole mentre Tommasi e Calcagno rendono conto a una platea dove una quota importante vive al di sopra delle possibilità del sistema.
Il nuovo nodo del contendere è il Decreto Crescita, la misura che dall’estate 2019 consente alle società calcistiche italiani di ingaggiare giocatori provenienti dall’estero (anche italiani di ritorno) con una tassazione dimezzata rispetto al normale. Misura che ha portato in Serie A campioni altrimenti non accessibili e che ha dato una boccata d’ossigeno alle società, prima e soprattutto dopo lo tsunami del Covid. A dicembre scade e l’Assocalciatori – qualcuno sussurra su spinta del sindacato dei procuratori – si è mossa per ottenere dal Governo l’impegno a revocare la misura.
La ragione? Tutelare i calciatori italiani visto che, sostiene la Fiom dei pallonari, il Decreto Crescita ha aperto una corsia preferenziale non solo a Lukaku, Ibrahimovic e altri numeri uno ma anche a una quantità di pippe acquistate solo perché costavano meno. Dimenticando che i club, per come funziona il calcio nell’era moderna, hanno talmente le mani legate nel rapporto con agenti e calciatori da continuare a stipendiare anche una lunga lista di pippe con passaporto italiano e cresciuti in Italia già tutelati, a dir la verità, da un’altra serie di norme che provano a tutelare i settori giovanili.
Tutto questo non interessa, però, i sindacalisti del football. Figurarsi. Per un anno e mezzo hanno fatto scena muta quando è stato chiesto loro di dare una mano a evitare il crac del sistema e non c’è memoria di presa di posizione a fianco delle società e della Federcalcio nella battaglia con il Governo per farsi riconoscere ristori e facilitazioni, prassi comune a tutti gli altri settori economici d’Italia. Ora, invece, l’alzata di scudi che potrà trovare anche sponde politiche nella maggioranza ma che conferma l’assoluta miopia dei nostri eroi della domenica e di chi li rappresenta: sono convinti che il Covid sia esistito solo per gli altri e che i proprietari siano vacche da mungere fino all’ultima goccia, magari andando a scadenza per lucrare ingaggi e commissioni ancora più alti lasciando voragini dietro di sé. Tanto paga pantalone. In questo caso Paperone, ma non necessariamente con meno diritti rispetto a chi lo sta spolpando.