mercoledì, 5 Febbraio 2025
Leave No Traces – La recensione del film di Matuszyński da Venezia 78
Grzegorz Przemyk è uno studente che ha appena superato l’esame scritto di maturità, figlio di una nota poetessa. Siamo nella Varsavia del 1983: la legge marziale è stata abolita, e i cittadini possono godere di maggiore libertà. Quando la milizia gli chiede la carta d’identità mentre si trova in centro con l’amico Jurek, il ragazzo sa bene che non è tenuto a esibirla, quindi si rifiuta. Per tutta risposta, gli agenti lo caricano su una camionetta e lo portano in caserma insieme a Jurek, che assiste impotente allo spaventoso pestaggio di Grzegorz da parte dei poliziotti. «Non sulle spalle» dice uno di loro, «colpitelo alla pancia per non lasciare tracce». Ed è proprio ciò che fanno.
Il resto della vicenda è altrettanto familiare, ne abbiamo viste di simili anche in Italia. Grzegorz viene tacciato di essere un ubriacone molesto, un drogato violento, e il pronto soccorso non gli presta le cure adeguate. Quando i medici capiscono la gravità della situazione, ormai è troppo tardi: lo studente muore il giorno successivo in sala operatoria. Jurek ha visto tutto, vuole testimoniare contro la milizia, che però nega le accuse e inventa fantasiosi scenari in cui Grzegorz è stato aggredito dagli infermieri sull’ambulanza. Inizia così un lungo percorso di insabbiamento della verità, con il regime impegnato a distruggere Jurek, la sua famiglia e la madre della vittima. Leave No Traces parte dal romanzo di Cezary Łazarewicz per rendere giustizia a una storia vera, tristemente universale perché ricorre in ogni sistema politico, in ogni nazione del globo. Certo, un governo totalitario agisce in modo ancora più palese, ma le istituzioni tendono sempre a proteggere loro stesse, indipendentemente dal contesto.
Succede anche nel film di Jan P. Matuszyński, dettagliatissima epopea umana e giudiziaria che non spreca un solo istante dei suoi 160 minuti. La durata si rivela utile a ingabbiare lo spettatore nella stessa rete di intrighi che imprigiona Jurek, fatta di menzogne spesso paradossali. Matuszyński ha usato un’espressione molto chiara per descriverla: “kafkiana”. In effetti, l’apparato del regime crea situazioni contorte che sfidano la logica, forzando la realtà ai propri fini. Un incubo istituzionale avvolto nella fotografia granulosa di Kacper Fertacz, perfetta per rievocare l’atmosfera opprimente di quegli anni. Siamo dalle parti del cinema spionistico (non a caso, Leave No Traces dedica molto spazio alle operazioni segrete della polizia per intercettare Jurek o indagare sul suo passato), ma con un fortissimo dato umano al centro della trama.
È una storia frustrante, poiché riflette sul “muro di gomma” che il potere edifica attorno a sé. Il film, peraltro, sa bene come suscitare certi sentimenti nel pubblico, e sceglie le facce giuste nei ruoli giusti: si pensi all’odiosa e grottesca procuratrice interpretata da Aleksandra Konieczna, a cui viene assegnato il caso dopo l’allontanamento di una collega, troppo “simpatizzante” con la vittima. Il vero trionfatore è però Tomasz Zietek nella parte di Jurek, che regala una performance sfumata e sofferta. È anche grazie al suo impegno che Leave No Traces fa così tanta rabbia, e ci stimola a non dimenticare chiunque venga ucciso dai rappresentanti delle istituzioni. Che si chiami Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi o Grzegorz Przemyk.