L’umanità delle scimmie

Dietro le quinte del nuovo capitolo della saga dove i primati governano il mondo, guidati dal regista Wes Ball. Che racconta a Panorama i segreti degli effetti speciali: «Ho insegnato agli attori a muoversi come animali. La tecnologia ha fatto il resto».


Quando si chiede ai cinefili quale sia il capostipite della più vecchia e longeva saga cinematografica la risposta solitamente è Star Wars, la space opera che nel 1977 ha lanciato al contempo un universo di film e giocattoli, rinforzando il concetto di blockbuster estivo introdotto due anni prima da Lo squalo. In realtà l’origine del «franchise», come gli americani chiamano un marchio in grado di dare vita a una serie di pellicole, telefilm e progetti vari, risale al 1968, con l’arrivo nei cinema di Il pianeta delle scimmie: il film di fantascienza con Charlton Heston, tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Boulle, vedeva tre astronauti approdare su un pianeta alieno dominato dalle scimmie, dove gli uomini vivevano in schiavitù, salvo scoprire che avevano viaggiato in avanti nel tempo e in realtà erano ritornati sulla Terra, dove la civiltà era stata distrutta da una guerra nucleare e i primati avevano preso il potere. Il regno del pianeta delle scimmie, in arrivo al cinema il 9 maggio, è il decimo film in 56 anni a prendere ispirazione dal mondo e dai personaggi creati da Boulle: dopo i quattro sequel dei primi anni Settanta e il remake di Tim Burton del 2001, considerati non riusciti, la saga è stata rilanciata nel 2011 con una nuova trilogia di enorme successo, che tornava all’origine dell’evoluzione dei primati in creature intelligenti, causata da un esperimento scientifico, e al loro successivo scontro con gli umani.

«Quando mi hanno proposto di proseguire il franchise nel 2019, ho rifiutato», dice a Panorama il regista Wes Ball, autore di tre episodi del distopico Maze Runner. «Pensavo, infatti, che non avesse senso continuare a raccontare le avventure del figlio della scimmia capopopolo Cesare, morto nell’ultimo capitolo della serie. Tra l’altro, lì si intuiva anche che l’umanità era al collasso. Perciò mi è venuta l’idea di cominciare una nuova storia e proporla ai produttori». Quella proposta, accolta con entusiasmo, si è trasformata ora in un film che potenzialmente può aprire una nuova trilogia. Sono trascorsi 300 anni da quando Cesare, l’originario leader delle scimmie, è morto, e un nuovo personaggio si è affacciato sulla scena: il bonobo Proximus Cesare (lo interpreta l’attore Kevin Durand) conosce la storia dei propri simili e vuole scoprire tutti i segreti della tecnologia umana ormai andata perduta, per dichiararsi il capo incontrastato di tutti i primati. «La civiltà umana è distrutta, la natura ha ripreso possesso degli edifici, circondandoli di vegetazione, e delle città, ormai in rovina e attraversate da fiumi impetuosi» aggiunge Ball. «In questo scenario in cui le scimmie si sono divise in clan, si affaccia come antagonista di Proximus lo scimpanzé Noa (interpretato da Owen Teague, ndr), cresciuto nel mito di Cesare e della sua guida morale, che è rimasto sempre all’oscuro degli eventi passati e ha uno sguardo ingenuo sui propri simili».

Il film catapulta gli spettatori in una natura selvaggia dominata dalle scimmie che, non a caso, è stata ricreata nei paesaggi incontaminati dell’Australia e del Nuovo Galles del Sud, usati per ricreare la costa occidentale americana. Il regista ha preteso che, ove possibile, i resti della civiltà e le location principali fossero ricostruiti a grandezza naturale, in modo tale che i personaggi e con loro gli spettatori del film fossero immersi in un mondo tangibile e non soltanto generato al computer. Questo episodio segna il trionfo degli effetti digitali: gli scimpanzé, i gorilla e i bonobo sono infatti stati ricreati grazie ai maghi della Weta Film, la casa di produzione ed effetti speciali di Peter Jackson (regista de Il Signore degli Anelli), utilizzando i movimenti e le espressioni facciali degli attori in scena.

L’innovazione tecnologica è dunque la chiave per capire il ritorno al successo di questo franchise che dopo il remake di Tim Burton sembrava morto e sepolto: impossibile infatti per rappresentare le scimmie continuare a far indossare agli attori maschere che, se nel 1968 riuscivano a scioccare il pubblico, nel 2001 pur considerando gli avanzamenti nel make up, risultavano anacronistiche. Ecco allora arrivare la «performance capture», tecnica per catturare e poi trasferire la recitazione degli attori alle loro controparti digitali in scena. Ma se le scimmie di ieri erano eccessivamente antropomorfe, camminavano come noi oppure quando si muovevano a quattro zampe lo facevano in maniera poco credibile, dal 2011 in poi tutto è cambiato grazie allo studio di Andy Serkis, attore e interprete di Cesare. «Prima dell’inizio delle riprese il cast ha frequentato per sei settimane la “scuola di scimmie”, capeggiata da Alain Gauthier, che ha un passato da ginnasta specializzato nel trampolino elastico e ha partecipato a competizioni internazionali prima di diventare uno dei membri fondatori del Cirque du Soleil» spiega Ball. «Il suo compito è stato di renderli consci del proprio corpo, aiutandoli a creare nuove connessioni neurali in grado di imparare e mettere in pratica i movimenti delle scimmie».

Ad aiutarli a entrare nella parte, con tutta quella serie di espressioni e grugniti realistici che solo un primatologo può conoscere, è stato poi proprio Serkis, creatore di quella tecnica recitativa che permette di trasformare un uomo in una scimmia. «Il suo ruolo» conclude Ball «è stato di far sì che gli attori trovassero la chiave per diventare animali, infondendo però ai personaggi quella scintilla di umanità che li rende personaggi appassionanti e con passioni tremendamente simili alle nostre».

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