Macron e Scholz provano ad isolare l’Italia, per paura

Volodymyr Zelensky, il tanto discusso presidente dell’Ucraina, viene ricevuto in Europa dal governo britannico – l’alleato che più di tutti offre sostegno militare all’Ucraina (in termini militari, economici e persino umani) – così come dai governi di Berlino e Parigi, dove stasera si attovaglieranno Emmanuel Macron e Olaf Scholz per discutere del futuro dell’Europa minacciata dalla guerra.

Manca un posto a tavola, però: Giorgia Meloni non è stata invitata. E del resto Zelensky ha saltato completamente l’Italia nel suo tour Ue, anche in ragione delle polemiche sulla sua presenza (fosse stata anche virtuale) a Sanremo, sia mai che ogni tanto gli italiani s’informino su cosa accade oltrefrontiera.

Meloni negli ultimi dieci giorni aveva lavorato duro, piazzando bandierine in Germania, Svezia, Francia, Libia, Etiopia, Somalia. Viaggi preparatori dell’odierno Consiglio europeo a Bruxelles – dove è in programma (almeno qui) anche un faccia a faccia con il presidente ucraino – e della strategia energetica che il governo intende sviluppare nei prossimi mesi. Ma la premier sembra stringere in mano poco più che sorrisi di circostanza e qualche pacca sulla spalla da parte della sempre educata presidente della Commissione, Von Der Leyen. Per il resto, in Europa è il gelo nei confronti di Roma.

Dopo l’assenza dell’Italia all’incontro con la segretaria all’economia Usa Janet Yellen – con il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire che ha umiliato Meloni liquidando la vicenda con un gelido «informeremo Giorgetti» sull’esito dei colloqui – ecco che restiamo nuovamente a guardare. Persino la sponda spagnola non si presta più al gioco: il premier Sanchez non deve aver digerito il sostegno di Meloni a Macarena Olona, candidata del partito di ultra-destra e neo franchista, Vox, che ha portato i conservatori a mantenere la presidenza dell’Andalusia. E così snobba la delegazione romana.

Ancora una volta, dunque, l’Italia si ritrova isolata in Europa, e si accontenta del solo piano Pnrr, che ancora oggi rappresenta il solo credito – ma soprattutto l’ossigeno – che Roma può vantare in sede europea. Niente da fare, invece, per la nostra proposta di creare un fondo sovrano europeo: Bruxelles risponderà picche per gli aiuti di Stato alle imprese, perché non abbiamo alcuna leva da far valere.

Come per tutti gli altri governi, è chiaro che anche quello a guida Fratelli d’Italia rimane al momento ostaggio dell’impopolarità del nostro Paese. In ragione sia dell’inaffidabilità che ci ha spesso contraddistinto, sia del velleitarismo delle opposizioni (a tutto: alla guerra, alle trivellazioni, agli Stati Uniti, al 41 bis, etc.), che mai lavorano per il bene comune ma preferiscono boicottare ogni iniziativa del governo, accontentandosi di distruggere l’avversario politico anziché creare i presupposti per un’Italia più forte e coesa.

E così Roma si ritrova ancora a pagare un conto salatissimo per quel provincialismo endemico della nostra politica, unitamente a quello pseudo-pacifismo di maniera: due fattori che da decenni ci relegano immancabilmente nella serie B delle leadership europee, condannandoci all’inconsistenza diplomatica una volta di più.

Questo non solo rimarca la totale insussistenza di una politica estera degna di questo nome da parte di Palazzo Chigi, ma fa giustamente inalberare la stessa presidente Meloni, che fino a pochi giorni fa si poteva dire fiera della propria linea atlantista e del «piano Mattei» sull’energia, che punta a rimettere Roma al centro della geopolitica del bacino Mediterraneo. Che poi è la sola e unica nostra proiezione di potenza.

Anche qui il governo ottiene mezze vittorie, per il momento: la Libia divisa dalla faida Tripoli-Bengasi, si è spaccata a metà ancora una volta, dopo la missione nel Paese guidata dalla premier. Qui la missione guidata da Meloni ha prodotto la sigla di un importante contratto tra il gruppo energetico italiano Eni e la National Oil Corporation (NOC), la major libica degli idrocarburi.

Un progetto strategico che punta «ad aumentare la produzione di gas per rifornire il mercato interno libico, oltre a garantire l’esportazione di volumi in Europa», come recita una nota del governo. Ma per il momento, tutto ciò resta una firma su un pezzo di carta. Almeno finché non faremo tappa anche a Bengasi, per raccordarci anche con l’altra «parte in causa», visto e considerato che quel che vale in Tripolitania non conta in Cirenaica, e che senza un’approvazione di entrambe le anime libiche sarà ben difficile proseguire nel costruire solide e durevoli relazioni economiche.

Più in generale, il «Piano Mattei» su cui punta Meloni per rilanciare il nostro Paese e sganciarlo dal ricatto di Mosca, sarebbe finalmente ciò che si chiama una strategia. Anche se, tradotto nei fatti, resta ancora un non meglio definito «modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana. Ci piacerebbe così recuperare, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo».

Ed è proprio quel «ci piacerebbe» a tradirne l’impostazione. E vale per il piano Mattei come per tutto il resto. Ci piacerebbe la pace ma, non potendo ottenerla, ci accontentiamo di girarci dall’altra parte. Ci piacerebbe l’indipendenza energetica italiana ma, scegliendo di non perseguirla, ci affidiamo a Paesi instabili e/o falliti. E così via. Abbiamo il vizio di non voler andare mai fino in fondo nelle decisioni, di non riuscire a essere coerenti.

Se l’Italia vuole essere davvero un hub europeo per l’energia, deve necessariamente discuterne con l’Europa e partecipare alle «cene che contano». Se vuole gestire i migranti a livello comunitario, deve regolarsi con i Paesi nordeuropei e non soltanto accordarsi con quelli africani. Così come se vuole sganciarsi dal ricatto di Mosca, allora deve sostenere Zelensky senza tentennamenti. E deve farlo nonostante i mal di pancia dei benpensanti, che dal salotto di casa giudicano una guerra che ha già fatto 200 mila morti (e promette di farne altrettanti nei prossimi mesi), suggestionati a loro volta da commentatori e analisti da avanspettacolo che tutto fanno fuorché considerare la realtà dei fatti. E cioè che la guerra esiste già ed è inevitabile prendere una parte.

In un Paese dove un partito dell’opposizione va a rendere omaggio a un terrorista in carcere e si presta al gioco dei mafiosi che sperano di vedersi togliere le restrizioni del carcere duro, la maggioranza di governo non può esimersi dal lavorare affinché non prevalgano gli istinti autolesionisti della pancia degli italiani, ma piuttosto la ragion di Stato. Quella che impone a ogni leader di governo di guardare non al consenso effimero dei sondaggi, che sono di per sé temporanei, ma alle scelte coraggiose che ci porteranno a risultati nel lungo termine.

Invece, ci accontentiamo di blandire l’opinione pubblica nell’immediato, di ricevere giusto una letterina da Kiev e un paio di ambasciate di diplomatici in gita a Roma. Come se ciò bastasse a nutrire la nostra politica estera, quando invece ciò palesa la nostra pressoché totale estromissione dalle decisioni che contano. Purtroppo, la realtà delle nostre relazioni internazionali – e questo Consiglio europeo non farà che rimarcarlo – ci conferma in una posizione di subordine rispetto a Parigi e Berlino. Due Paesi dove non mancano certo le tensioni e il dissenso, e dove il coinvolgimento nella guerra in Ucraina non è meno problematico o dibattuto che da noi. Ma almeno le loro cancellerie riescono a fare sintesi, e a produrre poi scelte alle quali si attengono coerentemente. Una concetto che da noi è lunare.

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