giovedì, 28 Novembre 2024
Marlon Brando, i 100 anni del divo eretico di Hollywood
Cento anni fa, il 3 aprile 1924 a
Omaha, nel Nebraska, nasceva il terzogenito del produttore di
pesticidi e materie chimiche Marlon Brando Senior. Il bambino
aveva lo stesso nome del padre che detestò per tutta l’infanzia;
per distinguersi si faceva chiamare Bud, finché col nome di
Marlon Brando divenne celebre cancellando così la memoria del
papà. Il figlio considerava invece la madre Dorothy la sua musa
e il suo più grande amore, tanto da ammettere che recitava
soltanto per avere la considerazione della “sua” Dorothy.
Cresciuto tra la California, l’Illinois, il Minnesota (dove
si fece cacciare dall’accademia militare) Brando approdò nel
1943 a New York, si iscrisse ai corsi di recitazione di Stella
Adler nella Dramatic Workshop di Erwin Piscator, dove rimase
folgorato dal Metodo Stanislavskij, affinato poi all’Actors
Studio di Lee Strasberg. Appena un anno dopo, Marlon debuttava a
Broadway nella commedia “I Remember Mama” e, a guerra appena
conclusa, si confermò in “A Flag is Born” di Ben Hecht. Aveva
già idee ben chiare anche in politica (per sostenere il nascente
stato di Israele si impegnò a lavorare al minimo sindacale) e il
teatro lo amava, come confermò il suo successo personale in “Un
tram che si chiama desiderio” da Tennessee Williams. Il passo al
cinema fu breve e nel 1951 Elia Kazan lo volle per la versione
hollywoodiana della commedia.
Fisico atletico, sguardo magnetico, testosterone a mille,
Brando divenne una star. Iconici i ruoli da “Viva Zapata” a “Giulio Cesare” (in cui giganteggia nella parte di Marc’Antonio)
a “Il selvaggio” (giubbotto di pelle e motocicletta in bella
mostra). Nel 1954 aveva già alle spalle tre candidature
all’Oscar, traguardo raggiunto nel ’56 con “Fronte del porto” a
fianco di Rod Steiger. I film successivi non sono tra i più
belli della storia del cinema: in “Desirée” Brando costruì un
improbabile Napoleone a sua immagine e somiglianza, in “Bulli e
pupe” provò senza grande convinzione a cantare e ballare, in “Sayonara” (10 nomination) e ne “I giovani leoni” fu soltanto
professionale, in “Pelle di serpente” lavorò soprattutto su
nevrosi e depressione. Eppure era ormai un modello indiscusso e
una garanzia di successo, confermato nel 1962 dal trionfo di “Gli ammutinati del Bounty”. Su quel set incontrò la tahitiana
Tarita Teriipia sposata poco dopo.
Imbolsito, depresso, rintanato nel suo buen retiro a Tahiti,
Marlon Brando sembrava finito per sempre. Venne in suo soccorso
il cinema italiano con “Queimada” di Gillo Pontecorvo e “Ultimo
tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. Proprio il carisma
costruitogli dal cinema europeo convinse Francis Ford Coppola a
battersi contro la Paramount per averlo nella parte di Don Vito
Corleone ne “Il Padrino”. Il risultato fu l’Oscar come miglior
attore nel 1973. Da segnalare anche il ruolo Colonnello Kurtz in “Apocalypse Now”, nuovamente con Coppola alla regia. Poi, in un
vortice autodistruttivo, Marlon Brando si trascinò fino alla
morte per enfisema polmonare il 1 luglio 2004.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA