martedì, 4 Febbraio 2025
Mondocane e il ritorno del post-apocalittico all’italiana – La recensione da Venezia
L’impressione di stare vedendo non tanto un Mad Max all’italiana, quanto un aggiornamento del sottogenere post-apocalittico nato in Italia sulla scia del film di George Miller, non abbandona mai veramente lo spettatore di Mondocane, esordio al lungometraggio di Alessandro Celli, regista de I cavalieri di Castelcorvo.
Già il titolo pare un rimando alla stagione dei Mondo Movies italiani, e in particolare al Mondo Cane di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi. Magari è solo un caso, dopotutto “mondo cane” è un’espressione diffusa; ma il fatto che produca la Groenlandia di Matteo Rovere, compagnia la cui mission è sempre più rilanciare il genere italiano d’autore, insieme a Minerva Pictures, sembra corroborare questa ipotesi. Mondocane ha quel sapore di distopia a budget ridotto, ma, a differenza di quegli emuli un po’ raffazzonati di Mad Max, Celli (anche sceneggiatore) vuole “dire qualcosa” con il suo film.
Mondocane è ambientato in un vicino futuro. La catastrofe ambientale ha travolto il nostro paese, allo sfascio anche dal punto di vista politico e sociale. Nella zona dell’acciaieria di Taranto è nata una favela dove la vita umana non vale nulla, e bande armate la fanno da padrone. I cittadini benestanti si sono trasferiti in massa a Taranto Nuova, mentre la vecchia Taranto è una terra di nessuno devastata dall’inquinamento.
Qui vivono Pietro, alias Mondocane (Dennis Protopapa), e il suo miglior amico Christian (Giuliano Soprano), praticamente schiavizzati da un locale pescatore. Loro sognano di lavorare per Testacalda (Alessandro Borghi con mohawk d’ordinanza), leader della gang delle Formiche, composta prevalentemente da ragazzini orfani. Quando finalmente riusciranno a entrare nella banda, le loro strade inizieranno a divergere in maniera pericolosa.
Celli prende dunque le premesse dal filone post-apocalittico, condendole con le inevitabili riflessioni sul disastro ecologico imminente e relative conseguenze socio-politiche, ma le mescola anche a suggestioni del nuovo filone gangster italiano. Sembra di vedere il futuro di Gomorra, un’iperbole narrativa che, come fa spesso la fantascienza, si fa specchio deformante del presente per metterne in luce le criticità.
Per quanto i dialoghi siano piuttosto banali, è innegabile che Celli abbia scelto molto bene gli scenari. I personaggi si muovono in luoghi degradati e abbandonati che, anche senza bisogno di parole, rendono perfettamente l’angoscia e il declino di un paese che rischia di cadere nel baratro dell’illegalità e della violenza. Visivamente, dunque, c’è dell’impegno.
Anche il cast funziona molto bene, non solo i giovani protagonisti, Protopapa e Soprano, ma lo stesso Borghi, uno di quegli attori italiani che sa fare un po’ “l’americano” senza che la sua sembri una pallida imitazione. Borghi ha carisma, una mimica da spaccone che non supera mai i confini del manierismo (per lo meno qui, forse in Suburra un paio di volte è successo) e sa riempire la scena e attirare su di se gli sguardi.
Purtroppo, Mondocane paga lo scotto di una sceneggiatura non sempre a fuoco, con una struttura diseguale che accosta troppe cose, dal dramma sociale all’action, dalla storia di crescita al poliziesco, senza farne davvero bene nessuna. Le scene d’azione vere e proprie non lasciano il segno, spesso affidate a una camera a mano stile Paul Greengrass, quelle più apertamente politiche risultano didascaliche.
Di positivo c’è che, grazie al lavoro che sta facendo Matteo Rovere attraverso Groenlandia, in pochi anni siamo arrivati al punto in cui anche un prodotto di seconda fascia come questo non è più imbarazzante. Finalmente riusciamo a vederci come autori di cinema d’azione e riusciamo a vedere l’Italia come un luogo in cui ambientare questo tipo di storie. Finalmente non si cercano più le cartoline ma si va a scavare nel marcio e in luoghi interessanti e cinematograficamente potenti.
Purtroppo, Mondocane non riesce a scrollarsi di dosso alcuni limiti del “vecchio” modo di fare questi film in Italia, quel bisogno di dire cose “importanti” anche a scapito dell’intrattenimento, nonché la difficoltà nello scrivere una sceneggiatura che abbia un crescendo compatto e non si perda in mille rivoli e spunti. Comunque, Alessandro Celli si è meritato una seconda chance.