Monster Hunter, la terapia di coppia di Paul W.S. Anderson a Milla Jovovich

Monster Hunter

I rotocalchi sono pieni di consigli su come tenere in vita un rapporto di coppia, piccoli accorgimenti della vita quotidiana che dovrebbero evitare la noia e le prevaricazioni. Tutto molto bello, ma non abbastanza per Milla Jovovich e Paul W.S. Anderson: il segreto del loro matrimonio, infatti, è continuare a fare film insieme.

In fondo, l’arte può essere una grande forma di condivisione, e il cinema è l’arte collettiva per eccellenza. Numerosi registi hanno cucito i loro film attorno alle rispettive compagne (pensiamo a Rossellini con Ingrid Bergman, o al recente Ema di Larraín), ma è nel cinema d’azione che questo rapporto trova una dinamica particolare, tutta centrata sul corpo. Lo abbiamo visto negli anni Novanta con Renny Harlin e Geena Davis, soprattutto in Spy, e ora la coppia Jovovich / Anderson ce ne offre un altro esempio.

Monster Hunter è il loro sesto film insieme (l’ottavo, se consideriamo i due capitoli di Resident Evil non diretti da Anderson), e rinforza il peculiare sguardo del cineasta sulla moglie, ormai una vera e propria icona del genere action. Allontanandosi dalla consueta sessualizzazione del corpo femminile, Anderson la trasfigura in un’eroina androgina e post-umana, pragmatica e indistruttibile, che solo raramente mostra un lato emotivo. Erano così anche gli eroi maschili degli anni Ottanta e Novanta, ma da Stallone o Schwarzenegger ci si aspettava una caratterizzazione del genere, in quanto uomini. A partire dai sequel di Resident Evil, Milla Jovovich ha declinato quell’identità in un personaggio femminile che sconfessa tutte le pressioni sociali e sessuali del male gaze, abbigliamento compreso. Un’inversione di marcia rispetto agli esordi, quando il precedente marito Luc Besson ne denudava corpo ed emozioni per Il quinto elemento.

Di fatto, Monster Hunter prosegue sulla medesima strada. Anderson prende l’omonima saga videoludica e la ritaglia su misura per la moglie, avvantaggiato dal fatto che i giochi non abbiano una vera e propria trama. Jovovich interpreta Natalie Artemis, capitano di una squadra dell’ONU, che si ritrova catapultata in misterioso deserto popolato da mostri giganti. La sua estraneità da questo mondo parallelo facilita l’immersione del pubblico, ma è anche un espediente furbetto per mettere la solita protagonista americana. Non a caso, il rapporto con il “cacciatore” interpretato da Tony Jaa ricorda quello fra un colonizzatore occidentale e il buon selvaggio, nonostante i tentativi di renderlo paritario.

La centralità dell’attrice è infatti un elemento fondamentale nella costruzione del suo “mito” da parte del coniuge. L’occhio di Anderson – e quindi anche il pubblico – vive l’avventura attraverso l’esperienza di Artemis, il cui corpo diviene un terreno di scontro. Tutto ciò che fa è votato all’azione e alla sopravvivenza: fuggire, combattere, liberarsi da una presa, curare le ferite, rifocillarsi e dissetarsi. Monster Hunter è un film di poche parole, anche perché spesso Artemis è da sola o in compagnia di personaggi che non parlano la sua lingua. Ciò che conta è l’atto d’amore del regista sul corpo e sul volto della moglie, cui concede soltanto un’ellisse romantica in quell’anello che conserva gelosamente in una scatola, e di cui non conosciamo la storia. Con un passato quasi inesistente, una caratterizzazione essenziale e un’identità che travalica i generi, è come l’avatar neutro di un videogioco.

Monster Hunter

È questo l’aspetto più interessante del film, che fatica a costruire una mitologia ben definita, e conferma l’incapacità del cinema americano di valorizzare gli artisti marziali d’Oriente (Tony Jaa, che pure ce la mette tutta, meritava di più). Per il resto, Ron Perlman è svogliatissimo e Milla Jovovich è l’unica che ci crede davvero: d’altra parte, Monster Hunter era un passion project tanto per lei quanto per il marito, entrambi appassionati del gioco. Il loro amore genera comunque un film onesto, girato meglio rispetto ai caotici Resident Evil, e sorprendentemente “materico” nel suo rifiuto del green screen in favore di ambientazioni reali (il deserto della Namibia). Ci sono film più blasonati e costosi di questo che hanno un aspetto ben peggiore, a causa degli sfondi in post-produzione. Qui, con un budget non certo faraonico, Anderson e lo studio Mr. X VFX realizzano mostri in CGI di ottima qualità e ben integrati nel contesto, con risultati migliori di molti blockbuster prestigiosi.

Certo, le idee sono per lo più derivative (soprattutto da Tremors, Alien e La torre nera), ma alcune scene risultano godibili e il lavoro sulla protagonista non è affatto banale. Peccato che la sua idea di racconto seriale sia rimasta ferma a venti o trent’anni fa, e non sembri frutto di un’accurata pianificazione. Poco male: ciò che conta è la solidità della coppia, il cui fuoco si rinnova di film in film.

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