Mortal Kombat, la recensione

Pur con tutto l’affetto di questo mondo e dell’Outworld per il Mortal Kombat del 1995 di Paul W.S. Anderson – e per la sua colonna sonora che fa oscillare la testa a ritmo a noialtri fan anche a distanza di ventisei anni – fare meglio oggi, con un nuovo film di Mortal Kombat, non era questa grande impresa. Tanto più con un budget non disprezzabile da spendere. Tanto più se, metti, affidi Lord Raiden, il dio del tuono giapponese, a un attore nipponico e non a Christopher Lambert col parruccone (o al generico da parafarmacia che hanno usato in Mortal Kombat: Distruzione Totale, il fu Ajax James Remar). E infatti questo Mortal Kombat, il Mortal Kombat diretto dall’esordiente Simon McQuoid – da oggi disponibile su Sky/Now – il suo lo fa. Nel senso: è un film nel complesso guardabile, soprattutto per gli appassionati della saga di picchiaduro da cui pesca storia, personaggi, sbruffonate e fatality (vedi qui). È zeppo di tamarrate e zuppo di sangue, il fan service si spreca, la storia è naturalmente improbabile e tenuta insieme all’inizio e alla fine, come due parentesi, dall’antica rivalità tra Scorpion e Sub-Zero. I due clan, la morte e resurrezione di Scorpion, fuoco contro ghiaccio, eccetera, eccetera. Il punto, semmai, è: ma un film serio, credibile, su Mortal Kombat è possibile? Ah, ah, ah. Dai, su…

Mortal Kombat 2021 recensione

“GET OVER HERE, GAG!”

Vedo quelle mani alzate, lì in fondo. C’è chi tra voi vorrebbe far presente che negli ultimi anni abbiamo visto al cinema alberi parlanti protagonisti di momenti drammatici, uomini formica salvare il mondo, Stallone a capo di un clan di stracciafaccende dello spazio. Ok. Ma Mortal Kombat è Mortal Kombat, e serio non lo è mai stato. La sua ultraviolenza è stata condita sin dagli albori dall’umorismo ammiccante, le fatality strappa colonna vertebrale dai pugni negli zebedei, le trame da fine-di-mondo dalle gag e dalle autocitazioni. Questo film, anche comprensibilmente, non ci prova nemmeno a non sbracare subito.

C’è un prologo che dovrebbe spuntare un attimo al drammatico, ma serve giusto a imbastire il discorso. Sbrigata la faccenda di quei due che si menano e uccidono dai tempi dell’antico Giappone, mostrato come si può fare giardinaggio con un kunai, e snocciolato il pistolotto sui guerrieri del destino nati con la voglia (trasferibile) a forma di drago, si mollano gli ormeggi e la nave salpa. Facendo rotta per Masìdaidivertiamocilandia.

I dialoghi terribili accompagnano una trama che cerca di rendere digeribile il torneo multidimensionale con il nome da, beh, videogioco volutamente sopra le righe del ’92. E siccome la cosa rischia per ovvie ragioni di far sorridere, c’è sempre la gag ad accompagnare ogni momento spiegone. Sonya Blade (Jessica McNamee) illustra a quel pistola di Cole che cos’è questa faccenda del torneo mortale, lui risponde con una battuta. Qualcuno dice qualsiasi cosa, Kano risponde con una battuta (piena di f*ck). O cita Forrest Gump a proposito del cappello rotante di Kung Lao. È un meccanismo che abbiamo visto in tanti film dell’MCU, e per quanto le gag possano risultare indigeste a tanti, hanno una funzione precisa: evitare di far precipitare il tutto in un baratro, di spiccare un tuffo di testa nel burrone del kitsch.

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LA REGOLA DELL’AMICONE

Se ti prendi troppo sul serio, quando parli di gente che congela cose e persone con la sola imposizione delle mani, o ordisce magheggi da un’altra dimensione per truccare un torneo di arti marziali da cui dipendono vari mondi, facile la gente rida di te. Se ci butti la gag, e te la giochi bene, è più probabile invece che rida con te. La battuta, quel “Ma dai!”, la fa uno dei protagonisti, prima che ci pensi lo spettatore. Nessuno a quel punto giudica più nessuno, si è tutti più accondiscendenti, perché è tutto voluto. Se sembra scemo, è perché lo è di proposito, non per errore, e il film te lo dice con grande onestà: “Sono qui per divertirti, perché me l’hai chiesto tu. Ghigna”. E tu ghigni.

La componente ironica, la linea comica per dirla alla Boris, non serve solo nei film per famiglie, ma più in generale aiuta ovunque. Del resto, c’hanno costruito su metà del cinema action degli anni 80 e 90, su questo concetto. Compresa praticamente tutta la carriera di zio Schwarzy.

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FLAWED VICTORY?

Il problema è che in questo Mortal Kombat le gag spesso non funzionano. Lo fanno, e pure bene, quelle che citano direttamente i tormentoni della saga: se ti aspetti che uno dei lottatori dica a un certo punto “Flawless victory!” e lui lo dice sul serio, è ovvio che la cosa ti dipinge un sorriso in faccia. Le altre, però, girano meno, tendono a incepparsi, perché i dialoghi sono mediamente terribili. C’è qualche attore bravo (Tadanobu Asano e, per quel poco che si vede, Hiroyuki Sanada, a cui si vuol bene dai tempi remoti in cui era Fantasma), ma gli altri sembrano cosplayer, tizi a cui hanno rifilato un costume perché fisicamente prossimi alle controparti nel videogioco e/o in grado (alcuni) di tirare qualche pugno davanti a una macchina da presa.

Il tizio che fa Cole Young, Lewis Tan, sa bene come mettere in scena uno stunt, perché di quello si è occupato per anni per mestiere, ma non come metter su un’espressione anche solo vagamente verosimile. Il risultato fa tenerezza, soprattutto nel finale, quando se ne va in giro con una maglia della salute di gomma effetto seduta in paglia. Il suo essere, in quanto figura centrale della storia, il rimpiazzo nel film di Johnny Cage (lottatore-attore legato a filo doppio a Van Damme. Di nuovo, vedi qui) toglie un personaggio autoironico alla trama e mette al suo posto uno con lo sguardo perennemente perso nell’horror vacui di chi prova disagio a recitare una battuta.

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MORTAL KANOBAT

Per quanto possibile, quel tipo di autoironia e consapevolezza dell’essere un combattente imbruttito l’hanno travasata però per due terzi di film nel mercenario subdolo e compagnone Kano, Josh Lawson (“Ah, pure fumettista!”, avrebbe commentato la signorina Silvani, prima di sputare), che è con ogni probabilità la cosa più azzeccata del film. Quello che arriva sempre a un pelo dallo sfondare la quarta parete, inanellando citazioni di altri film e saghe e prendendo tutto e tutti per i fondelli. Come avrebbe fatto (e farà nel probabile sequel, se questo incassa abbastanza) Johnny Cage, sì.

Ed ecco, il discorso è più o meno tutto qui: nel ’95, per sfondare tra il pubblico che adorava il gioco omonimo, con le sue esagerazioni alla Itchy & Scratchy Show, bastava far meglio di quella zozzeria di Street Fighter – Sfida finale, uscito l’anno prima e girato tra i mille casini, le fughe e le bottiglie di champagne di Van Damme. Un quarto di secolo e spicci dopo, però, siamo abituati a vedere a una frequenza assurda sul grande schermo storie di supergruppi, di buoni e cattivi che si scambiano palle di fuoco e raggi laser. Quello dei supertizi è diventato il sottogenere dominante del cinema fantastico, e, pur tenendo conto della natura ironica dei videogiochi da cui tutto è partito, nel confronto Mortal Kombat la fatality rischia di subirla. Per quel look televisivo della fotografia nelle scene urbane, per la recitazione svogliata di tanti dei suoi interpreti, che sembrano lì di passaggio.

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SUPERPOTERI E SUPERPROBLEMI

E però. Però i combattimenti nel complesso funzionano, alcuni più di altri, perché hanno tutto il sangue, gli effettacci, le fiamme, gli arti spezzati e le teste esplose della serie di giochi. I soldi per gli effetti speciali, nel portare su schermo le fatality più truculente e i colpi più iconici, li hanno spesi, e questo – insieme a un montaggio frenetico quando serve – camuffa e supplisce un po’ alla scarsa dimestichezza di alcuni attori con i calci rotanti. Ma se in un film di Mortal Kombat si strappano braccia, si sfilano cuori pulsanti dal petto e si sparano raggi laser dagli occhi, direi che su questo la pellicola di McQuoid ha fatto quello che doveva fare.

Insomma, un B-movie con i soldi, che è probabilmente ciò che questo Mortal Kombat era destinato a e voleva essere. C’è quel cafone mascherato di Kabal, c’è pure chi mi aspettavo sarebbe saltato fuori, alla fine qualche momento divertente ce l’ho trovato, e alle citazioni, visive e sonore, ho sorriso. Come questa saga mi fa fare praticamente dal 1993. Se uno è fan di MK, si lascia guardare.

E oh, peggio del film di Tekken (vi sblocco un ricordincubo) non poteva e non potrà mai essere.

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