Morto Bob Dole: sognò senza successo la Casa Bianca

È morto, all’età di novantotto anni, Bob Dole. Ex senatore repubblicano, gli era stato diagnosticato un cancro ai polmoni al quarto stadio alcuni mesi fa. In precedenza componente della Camera dei Rappresentanti, Dole era entrato in Senato per lo Stato del Kansas nel 1969, avviando così un’attività parlamentare che si sarebbe protratta fino al 1996. Un’attività che non gli impedì di assumere la presidenza del Partito repubblicano tra il 1971 e il 1973. Tendenzialmente centrista, votò a favore del Civil Rirghts Act e del Voting Rights Act, non rinunciando – da senatore – a una collaborazione con il collega democratico, George McGovern, per migliorare la legislazione in tema di buoni pasto. Un punto fermo del suo impegno pubblico è sempre stata la questione della disabilità: nel 1996, il New York Times riportò che la sua fondazione, creata nel 1983, avesse per esempio donato più di 7 milioni di dollari a programmi che promuovevano l’assunzione di disabili. Lo stesso Dole ha riscontrato seri problemi di salute nel corso della sua vita, dopo essere rimasto gravemente ferito – nell’aprile del 1945 – nei pressi di Bologna.

Probabilmente il suo più grande rimpianto è stata la Casa Bianca. Dole si è infatti candidato un elevato numero di volte, senza tuttavia riuscire a raggiungere l’obiettivo. Nel 1976 entrò nel ticket repubblicano a fianco del presidente uscente, Gerald Ford, nell’ambito di una competizione presidenziale che avrebbe visto tuttavia alla fine prevalere il governatore democratico della Georgia, Jimmy Carter. Più agguerrito che mai, Dole scese in campo per la nomination repubblicana del 1980 e del 1988, anche in questo caso senza risultati, finendo sconfitto prima da Ronald Reagan e poi da George H. W. Bush: se nel 1980 si era fermato allo 0,06% del voto popolare, otto anni dopo arrivò al 19,2% (comunque ben poco, rispetto al 68% dell’allora vicepresidente uscente).

La grande occasione si presentò infine nel 1996: Dole godeva di notorietà non solo per le sue passate campagne presidenziali, ma anche per il suo ruolo come capogruppo repubblicano al Senato. In questo modo, riuscì a sbaragliare la concorrenza interna per la nomination e – differentemente da molti suoi colleghi senatori successivamente in lizza per i vertici della Casa Bianca (da Barack Obama a John McCain, passando per Joe Biden e Kamala Harris) – si dimise dal Senato da semplice candidato (nel giugno del 1996, quando mancavano, cioè, ancora due anni alla scadenza del suo mandato). Pur vincendo le primarie, Dole si ritrovò a guidare comunque un partito in fibrillazione, visto che il suo principale rivale interno, Pat Buchanan, lo aveva ripetutamente accusato di essere espressione centrista e sfibrata dell’establishment di Washington: accusa che Dole aveva cercato malamente di scansare, tentando (con poca convinzione) di spostarsi più verso il fronte conservatore.

La campagna presidenziale di quell’anno non partì sotto cattivi auspici per l’elefantino: i democratici avevano infatti perso alle elezioni di metà mandato del 1994. Ma la situazione per i repubblicani peggiorò rapidamente. E questo per una serie di ragioni. In primo luogo, l’economia americana iniziò a riprendersi, garantendo in tal modo un forte vantaggio all’allora presidente, Bill Clinton. In secondo luogo, giocò il fatto dell’età. Con i suoi settantatré anni, Dole era percepito come un candidato troppo anziano e fragile, soprattutto in confronto al suo sfidante che era appena cinquantenne. Tra l’altro, il candidato repubblicano puntò molto sulla valorizzazione della propria generazione, tendendo a presentare Clinton come un viziato baby boomer: pur attirandogli il voto delle fasce elettorali più anziane, questa strategia si rivelò alla lunga controproducente. Senza poi trascurare come sia storicamente difficile disarcionare un presidente in carica. Dole scontò anche un programma poco definito e troppo ambiguo in politica estera, che cercava di mettere insieme alcune istanze clintoniane (a partire dall’interventismo internazionale) con altre più vicine alla sensibilità di Buchanan (come lo scetticismo verso le Nazioni Unite). In tutto questo, subì anche l’azione di disturbo del miliardario Ross Perot, che – pur non eguagliando i clamorosi risultati del 1992 – avrebbe comunque alla fine ottenuto l’8% del voto popolare. Per Dole fu una sostanziale debacle: si fermò infatti al 41% dei voti e ad appena 19 Stati. Quella del 1996 fu comunque la prima campagna presidenziale americana in cui i due principali candidati fecero ricorso a un sito web.

Negli anni successivi, pur non occupando posizioni in seno al partito, Dole ha continuato a far sentire la sua voce, soprattutto per gli endorsement presidenziali. Nel giugno del 2016, fu tra i (non molti) big repubblicani a dare il proprio appoggio a Donald Trump contro Hillary Clinton: una presa di posizione che gli attirò le critiche dei colleghi benpensanti, che consideravano il magnate newyorchese una iattura per l’elefantino. Critiche a cui Dole replicò con pragmatismo, parlando di un “obbligo verso il partito”. “Sono stato un repubblicano per tutta la vita”, dichiarò, “e so che entrambi i candidati sono imperfetti, e Trump ha fatto alcune cose da far arricciare i capelli, cose che non avrebbe dovuto dire”. “Voglio dire”, proseguì, “che cosa devo fare? Non posso votare per George Washington. Quindi sto sostenendo Donald Trump. Gli ho parlato due volte e spero di parlargli di nuovo e congratularmi con lui per aver attenuato la retorica e aver parlato dei problemi e non delle persone”. Trump, neanche a dirlo, fu molto contento. “È un uomo meraviglioso”, dichiarò, “ed è un grande onore avere il suo sostegno”. Dole – che nel 2018 avrebbe ricevuto la medaglia d’oro del Congresso – esercitò inoltre una certa influenza sul team di transizione dello stesso Trump, soprattutto per la sua attività di lobbying a favore di Taipei. Pare – secondo Politico – che sia stato proprio lui in un certo senso il regista della telefonata di congratulazioni, intercorsa il 2 dicembre del 2016 tra l’allora presidente americano in pectore e la sua omologa taiwanese, Tsai Ing-wen.

Con Bob Dole se ne va un altro pezzo della storia repubblicana americana. Un eterno candidato presidenziale che tuttavia, nella sua lunga attività parlamentare, è stato testimone di quella politica in grado di superare gli steccati partitici e di intavolare iniziative bipartisan, in nome della concretezza e dell’interesse generale. Tutto questo, pur scongiurando il rischio della melassa ideologica, nella ferma convinzione di un’appartenenza politica e culturale – quella repubblicana – che è durata fino alla fine.

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