Negli attacchi a Giorgia Meloni tutta la disperazione di Enrico Letta

Gli attacchi a Giorgia Meloni sui canali internazionali da parte di Enrico Letta segnalano le grandi difficoltà del centrosinistra. L’unica strategia che traspare è quella della demonizzazione dell’avversario, la speranza che i vincoli esterni finanziari e istituzionali intervengano per stritolare un futuro governo di centrodestra con l’idea che il Pd possa tornare in gioco nell’ennesimo governo emergenziale di coalizione. Questa volta però il centrodestra sembra maggiormente attrezzato anche su questo fronte.

Giorgia Meloni ha inaugurato una “strategia del vincolo esterno” fondata sullo sviluppo delle relazioni internazionali, la presenza sui media esteri e messaggi tranquillizzanti ai mercati finanziari. Potrà funzionare o meno, ma intanto indebolisce i tentativi della sinistra di squalificare la destra fuori dall’Italia. Meloni rimprovera a Letta, non senza qualche ragione, di sabotare la reputazione del paese per colpire i propri avversari elettorali. Il messaggio del Pd, in parte esplicito e in parte no, è che l’Italia non possa più considerarsi una democrazia europea se al governo c’è la destra. Un ritratto ingiusto della Repubblica italiana, ben più matura e forte di quanto la propaganda democratica provi a rappresentare all’esterno.

La strategia di Letta per ora sembra far acqua da tutte le parti. Sul fronte interno ha rinunciato all’alleanza con il Movimento 5 Stelle, coltivata per oltre un anno e mezzo, in nome del posizionamento internazionale e del sostegno al governo Draghi ma poi si è alleato con partiti – Verdi e Sinistra Italiana – che hanno le stesse idee di Giuseppe Conte. Ha cercato un accordo con Calenda e i centristi, ma cercando vendetta con Renzi, lasciato fuori dai giochi. È fallito pure quel piano dopo aver cercato di spostare il Pd su posizioni programmatiche moderate, ma senza voler perdere i partitini di sinistra. Il risultato è che invece di avere una coalizione che potesse valere intorno al 40-45% se ne ritrova con una che probabilmente prenderà il 25-30%. Se così fosse la sconfitta sarebbe assicurata, anche se la destra non andasse poi così bene alle urne.

Non è andata meglio con la scelta delle candidature: Letta ha dovuto sacrificare l’area democristiana del partito per far spazio ai Bonelli, ai Fratoianni, agli Speranza e ai loro uomini e donne. Oggi il Pd sembra un partito radicale con incursioni nell’establishment e, appunto, nella sinistra più massimalista. Se si osservano i nomi dei candidati è evidente la combinazione tra attivisti dei diritti civili della nuova sinistra progressista, vecchie componenti socialdemocratiche e tecnocrati da salotto tv, come Cristanti e Cottarelli, che poco c’entrano con i primi e secondi. La stessa incertezza si rileva nel programma.

Sul piano comunicativo, l’unica proposta passata è la patrimoniale per finanziare un sussidio indiscriminato ai diciottenni. Il resto è parte del solito pacchetto dem: diritti civili, politiche pro-immigrazione, generico ambientalismo, spesa pubblica per sanità e istruzione. L’impressione è che manchi un’idea forte, uno slancio nel tentare di convincere astenuti ed elettori tiepidi del centrodestra.

Qual è la prospettiva offerta dal centrosinistra all’italiano medio? Cosa si propone a quelle fasce di elettorato lontane dal lavoro pubblico e dall’antifascismo militante? La chiamate alle armi contro le destre pericolose e la nostalgia per Draghi non basteranno per recuperare terreno. Letta è andato bene come segretario del Pd fino a che era fermo sotto l’ombrello di Draghi, ma appena le circostanze lo hanno costretto a fare politica si è rivelato impacciato e debole. E ora il suo partito, che sembra destinato alla sconfitta, lo aspetta al varco. Le elezioni devono ancora arrivare, ma il congresso del Pd è di fatto già iniziato.

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